Facebook diventa edicola (virtuale): ospiterà gli articoli del New York Times

by redazione | 25 Marzo 2015 10:43

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La rivoluzione che potrebbe cambiare per sempre il volto del giornalismo comincerà per un inammissibile ritardo: di otto secondi. Quanti ne passano, in media, dall’istante in cui clicchiamo sul link a un articolo su Facebook a quello in cui quel pezzo appare davanti ai nostri occhi, nel sito di un giornale. Per la società fondata da Mark Zuckerberg, quell’attesa è una seccatura inaccettabile imposta ai lettori. E, per superarla, basterebbe fare in modo che le storie non fossero sui siti dei vari giornali, ma direttamente sul social network. In altri termini: permettendo agli utenti, mentre stanno condividendo immagini o scambiandosi messaggi, di leggere interi articoli senza uscire da Facebook.

Il cambiamento può sembrare minimo. Non lo è, e per una serie imponente di motivi. Il primo riguarda le dimensioni di Facebook: 1,4 miliardi di utenti, un quinto della popolazione del pianeta. Il secondo è che, secondo il New York Times , la proposta di inglobare articoli prodotti da diversi giornali non è teorica, i test inizieranno nei prossimi mesi, e i primi giornali a partecipare dovrebbero essere lo stesso New York Times , BuzzFeed e il National Geographic . Il terzo è che, davanti a queste indiscrezioni, il social network si è trincerato dietro a un «no comment», non a una smentita: e questo ha aperto un dibattito tra integrati e apocalittici nei media di mezzo mondo.
In realtà, la faglia apertasi ieri porta alla luce un sommovimento in corso da mesi. «Lo scorso anno, Facebook invitò una serie di editori americani a parlare delle difficoltà che stavano fronteggiando. A dicembre, tornò da loro con quattro idee. E ora ne tira fuori una quinta», spiega Jeff Jarvis, giornalista, docente alla City University of New York e grande esperto di media. «C’è da scommettere che avrà colloqui anche con testate europee. Si parla già del Guardian , ad esempio. I giganti della tecnologia stanno cercando alleati tra chi produce notizie».
A un primo sguardo, le ragioni per una collaborazione sono evidenti. I social network (da Facebook a Twitter, a Snapchat) vogliono che i lettori passino più tempo possibile sulle loro piattaforme, ed evitare che vi si diffondano notizie false: avere la garanzia di contenuti di qualità permetterebbe di centrare entrambi gli obiettivi, senza doversi impelagare nel difficile (e costoso) mestiere dell’editore «diretto».
E i giornali? Da un lato, avrebbero di fronte una platea non solo immensa (900 milioni di utenti attivi ogni giorno) ma per loro sempre più difficile da raggiungere. Una ricerca pubblicata pochi giorni dal Media Insight Project spiega che, negli Usa, l’88% dei giovani accede alle notizie regolarmente tramite Facebook; e non manca chi crede che, tra 5-10 anni, gli internauti leggeranno notizie quasi solo sui social.
Dall’altro lato, la piattaforma di Zuckerberg sarebbe pronta a dare ai giornali una parte dei ricavi pubblicitari derivanti dagli articoli inglobati sulla sua piattaforma. Si tratterebbe di una svolta clamorosa.
I nodi, però, non sono pochi. «In questo modo, si incoraggiano le persone a leggere notizie su Facebook. Facendone, di fatto, il guardiano della sfera pubblica: e questo pone dei problemi, dal punto di vista della libertà di stampa», spiega Emily Bell, in passato a capo dell’edizione digitale del Guardian e ora docente alla Columbia University. «In base a quale algoritmo Facebook deciderebbe quali contenuti mostrarci, e in che modo? E quali poteri negoziali avrebbe un giornale se le modalità di presentazione di un suo contenuto sulla piattaforma non lo convincessero?». Non solo: «Ipotizziamo che il numero di utenti di Fb continui a crescere. Chi oserà, a quel punto, rimanere fuori da un accordo che permette ai suoi concorrenti di avere accesso a miliardi di utenti?».
Ma il punto vero, per Jarvis, è un altro. «Ciò che conta sono i dati. Per decenni siamo andati avanti a scrivere un articolo, a impacchettarlo e a pensare che potesse andare bene per tutti. Quel modello di informazione è finito. I social sanno il nostro nome, il nostro compleanno, dove viviamo, chi sono i nostri amici e le nostre preferenze. Se dare articoli a Facebook garantirà ai giornali l’accesso a quei dati sui lettori, allora i media potranno finalmente imparare a fornire servizi personalizzati. A creare una relazione, non informazione di massa».
C’è da aver paura? No, per Jarvis: i giornali non possono ignorare un’opportunità del genere. «Ma occorre saper negoziare: o l’accesso ai dati dei lettori, o nulla». E alcuni giornalisti del Guardian avrebbero suggerito agli altri giornali di non procedere ad accordi separati, o diventerà poi difficilissimo tornare indietro. Per loro, la rivoluzione degli otto secondi può (anzi, deve) attendere.
Davide Casati
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