Da risorsa a minaccia al paesaggio La Toscana alla disfida del marmo

by redazione | 17 Marzo 2015 9:59

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«Perché non parli?», avrebbe detto Michelangelo al Mosé. Alle Alpi Apuane che fornirono il marmo bianco, accusano i geologi, non serve fare la stessa domanda. Parlano già. A ogni acquazzone torrenziale. Lasciando che si rovescino a valle, senza più le barriere naturali spazzate via dall’escavazione di marmo, spropositate quantità d’acqua. Per non dire dei danni al panorama. Al centro dello scontro sul piano paesaggistico che sta spaccando il Pd toscano.
Il braccio di ferro non è solo sulle cave. Trovato un compromesso sui limiti alle vigne «industriali», la zuffa è oggi sui «ritocchi» al piano dell’assessore Anna Marson che pareva passato ma passato non è. Grazie ad emendamenti congiunti Pd-Forza Italia, ecco i divieti diventare «raccomandazioni», le prescrizioni per le coste svuotate da frasi tipo «ferma restando la possibilità di realizzare adeguamenti, ampliamenti…» e così via. Una retromarcia tale da spingere il Fai e Italia Nostra e decine di intellettuali, da Sergio Staino a Dacia Maraini, da Giovanni Sartori a Vittorio Emiliani, da Salvatore Settis a Fulco Pratesi (compresi puristi che facevano le pulci alla Marson: «Troppo poco!») a firmare perché il piano non sia stravolto.
Lo scontro più duro, però, è ancora una volta sulle cave di Carrara: tolti i limiti a scavare ancora oltre 1.200 metri, tolti i paletti a riaprire le cave dismesse, tolte le tutele alle «aree integre» con la possibilità di «ampliamento delle cave autorizzate nelle adiacenze di vette e crinali integri». Cose che rasserenano i cavatori preoccupati da mesi per i «lacci e lacciuoli» e fanno al contrario sanguinare il cuore a chi, come Pietro Ichino, conosce quelle montagne metro per metro e sospira sulla devastazione del passo della Focolaccia dove forse era la tana dell’aruspice etrusco Aronte: «Quando ci andai la prima volta, più di trent’anni fa, era un luogo lontanissimo dal mondo civile e carico di suggestione; oggi gran parte del suo fascino è perduto, poiché il Passo è divorato dalle cave».
Due visioni del mondo opposte. Più inconciliabili via via che i macchinari moderni possono aggredire i luoghi più impervi. Dicono i cavatori che quelle vette mozzate, quei crinali sagomati come le montagnole del Lego, quei canaloni coperti di scarti di lavorazione, sono in realtà il bello delle Alpi Apuane.
Lo spiegarono con una pagina a pagamento dove campeggiava un volto del David: «Siamo convinti che l’identità paesaggistica del nostro territorio sia rappresentata dalle stesse cave di marmo, senza le quali le Apuane sarebbero montagne come altre e non lo scenario esclusivo di oggi, culla e risultato dell’agire umano». E i tentativi di arginare l’assalto delle ruspe? «Fumisterie di un ambientalismo ideologico».
Una guerra senza tregua. Di qua i padroni delle cave dicono che «ogni giorno migliaia di persone, da Carrara alla Versilia, in cava o nei laboratori di trasformazione, lavorano direttamente il marmo» più altre migliaia nell’indotto, facendo del marmo la ricchezza dell’area. Di là gli ambientalisti ricordano che mezzo secolo fa, quando si estraevano circa 400 mila tonnellate, cioè meno della metà di oggi (900 mila, ma nel ‘95 furono toccate le 1.256.221 tonnellate) i lavoratori delle cave erano seimila ma oggi, grazie alle nuove tecnologie, solo 600. Un decimo. E accusano: «Dal 1950 ad oggi sono state estratte più di 50 milioni di tonnellate di marmo in blocchi. Lo “scarto” quindi sarebbe non meno di 100 milioni di tonnellate». Totale: 55 milioni di metri cubi di marmo.
Di qua i cavatori sventolano i numeri della Camera di Commercio, secondo cui il settore ha recuperato sugli anni della crisi toccando nel 2013 «un totale delle vendite all’estero vicino ai 329 milioni di euro». Di là i critici, come Mauro Chessa presidente della Fondazione dei Geologi Toscani, denunciano che il prezzo pagato dall’ambiente è troppo alto e che quei soldi, ricavati da un bene che appartiene (al di là degli aspetti notarili) a tutti gli italiani vanno a finire spesso in tasche straniere, come quelle della famiglia Bin Laden, che con 45 milioni di euro ha comprato a luglio il 50% della Marmi Carrara, che detiene a sua volta il 50% di Sam, padrona di un terzo delle cave.
A farla corta, le cose hanno preso una piega tale da spingere la Regione a varare una legge, parallela al piano paesaggistico, che impone la concessione a tutte le cave, anche quelle in mano a privati a causa di un editto del 1751 della duchessa Maria Teresa Cybo-Malaspina. Titolo del Sole24ore : «La Toscana espropria il marmo». Rivolta: «È un esproprio proletario!». Sciocchezze, ha risposto il governatore Enrico Rossi, che da settimane cerca una mediazione decente tra «sviluppisti» e ambientalisti del suo stesso partito da portare oggi a Dario Franceschini. E ha spiegato a Mario Lancisi: «Io dico ai cavatori: ok, ti do una concessione sulla tua cava anche di dieci, venti anni, se vuoi». Ma a un patto: «Tu il marmo che escavi lo lavori anche e quindi produci lavoro, occupazione. Oggi il problema numero uno è che il marmo viene imbarcato e se ne va per il mondo mentre le aziende di lavorazione hanno chiuso la saracinesca».
Non bastasse, dice Chessa, «negli ultimi due decenni si è affermata una categoria merceologica trasversale: il detrito di marmo, gli scarti di lavorazione che alimentano i “ravaneti”, cioè le discariche minerarie delle Apuane». Polverizzato in carbonato di calcio per «plastiche, gomme, pneumatici, isolanti, vernici, colle, prodotti chimici, farmaceutici…» Per dire: 1.500 tonnellate l’anno vanno nei dentifrici venduti in Italia.
Come andrà a finire? Si vedrà. Certo ogni intesa sarebbe stata più difficile in novembre, a ridosso dell’ultimo straripamento del torrente Carrione. Che come scrisse Marco Imarisio «non è il Mississippi» ma per l’«occupazione sistematica dell’alveo naturale» ha man mano intensificato le sue esondazioni: 1936, 1952, 1982, 1985, 1992, 1996, 2003, 2009, 2010 (due), 2012 (tre), 2013, 2014…
Dopo quella del 2003, disastrosa e segnata da due morti, fu aperta un’inchiesta. Otto anni dopo tutto è evaporato: prescrizione. Resta però l’atto d’accusa delle perizie. La tragedia era dovuta anche alla cattiva gestione del territorio? «La risposta, alla luce delle indagini, non può che essere affermativa».
Gian Antonio Stella
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