Conferenza internazionale per uscire dal pantano in Libia
by redazione | 12 Marzo 2015 9:45
È risaputo che la buona diplomazia richiede discrezione, ma capita talvolta, come sta accadendo nel caso della Libia, che l’approccio discreto diventi un approccio confuso. A tutto beneficio di chi nell’ambiguità ha imparato a rafforzarsi, come l’Isis, e con danno per chi dalla Libia riceve minacce concrete alla sua sicurezza e stabilità, come l’Italia. Fare chiarezza non è facile, specialmente se si prendono in esame i tentativi di dialogo con il frastagliato fronte libico. L’obiettivo dichiarato dalla Comunità internazionale è la nascita di un governo libico di unità nazionale che metta d’accordo i due governi e i due parlamenti oggi esistenti.
Ciò allo scopo di meglio far fronte alla crescita del terzo incomodo, l’Isis appunto, che tra una carneficina e un attacco alle installazioni petrolifere si dichiara nemico di tutti. Nella direzione del governo unitario si muovono a fatica i colloqui che dovrebbero riprendere tra poco in Marocco, mentre in Algeria, a titolo complementare, si svolge un esercizio diverso: sono personalità elette dei due Parlamenti che vengono messe a confronto, nella speranza che trovino punti d’intesa.
Tutti sforzi lodevoli così come è stato opportuno l’incontro informativo di ieri a Roma tra il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il mediatore dell’Onu Bernardino León. A condizione però di valutare correttamente gli ostacoli che persistono, e di avere un piano per il «dopo» qualunque esso sia. Ed è qui che entriamo, a livello internazionale, in una nebbia che va dissipata al più presto se vogliamo salvare la credibilità di chi media, quella di chi lo appoggia come l’Italia, e dunque le probabilità di successo della sua opera.
Il governo di Tobruk (riconosciuto dalla Comunità internazionale) sta al gioco ma punta soprattutto sui raid militari degli amici egiziani (Renzi incontrerà venerdì al Sisi al vertice economico di Sharm el Sheikh) e chiede all’Onu ingenti forniture di armi sin qui negate. Il governo di Tripoli, suo avversario, denuncia la nomina dell’ex generale Khalifa Haftar a capo di un «esercito libico» che è in realtà l’esercito di Tobruk, e per non dispiacere alle sue molteplici componenti islamiste arriva a negare la presenza in Libia dell’Isis accusando invece nostalgici di Gheddafi appoggiati e finanziati dall’estero che vorrebbero destabilizzare il Paese.
E’ una partita a scacchi che qualcuno può vincere, questa? E se poi il miracolo avesse luogo, cosa accadrebbe al momento di decidere chi dovrebbe guidare il governo di unità nazionale? Si applicherebbe forse il modello afghano (un presidente e un premier teoricamente sullo stesso piano) che ha già i suoi problemi a Kabul e ne avrebbe di più radicali nella Libia delle milizie, delle tribù, dei clan e delle ambizioni inconfessabili come la spartizione del Paese?
Le probabilità di successo so no talmente sottili che diventa imperativo esaminare per tempo, cioè subito, le alternative esistenti. E qui andiamo di male in peggio. Salvo circostanze davvero eccezionali, oppure un intervento molto massiccio che nessuno vuole almeno fino a quando non sarà chiaro l’impegno degli Usa, l’opzione del peace keeping (per non parlare del peace enforcing, l’imposizione della pace con la forza) diventa man mano più fragile. Ci si rende conto dei rischi altissimi che comporterebbe, si teme con ragione che le fazioni libiche si uniscano contro lo straniero, si paventa di fare un grosso favore all’Isis che potrebbe attirare i più nazionalisti ed emergere dagli scontri come forza dominante. Allora si parla — e lo ha fatto Bernardino León in una intervista al Corriere — di blocco navale e della sua probabile approvazione al Consiglio di sicurezza dell’Onu (in tal caso, come aveva già detto Mosca e come hanno confermato i recenti colloqui di Renzi al Cremlino, la Russia parteciperebbe). Ma il blocco navale è un concetto piuttosto generico, se non si spiega da cosa deve essere preceduto e come deve funzionare. Per dirne una, che farebbero le navi dei «buoni» se vedessero avvicinarsi un barcone carico di clandestini? Lo affonderebbero? Di certo no. Andrebbero in suo soccorso? Così muterebbe la missione. Lo riporterebbero al luogo di partenza, esponendosi a uno scontro a fuoco che ucciderebbe per primi i disperati del barcone? Lo lascerebbero passare, consapevoli che sarebbero altri i compiti delle Marine schierate? Probabile.
Ma allora, visto che un uso anche passivo della forza mal si concilia con le correnti migratorie che ben conosciamo, bisogna scegliere se distruggere prima, sulla costa libica, le barche dei mercanti di uomini. Oppure se adottare l’arma dell’embargo energetico per bloccare i flussi finanziari che oggi le varie parti libiche si contendono, e poi decidere il blocco navale a guardia dell’embargo (ipotesi questa assai scomoda per l’Italia che importa gas dalla Libia, ma verosimilmente efficace).
La gravità della situazione libica suggerisce questi e altri scenari. Ma il fatto certo e immediato è che sul tavolo del suo estremo tentativo di compromesso diplomatico la comunità internazionale non è riuscita a porre né una carota né un bastone, essendo vaga la prima (difendersi meglio dall’Isis) e indecifrabile il secondo (presenza militare straniera, embargo con sanzioni, blocco navale?). L’Italia ha un interesse non più rinviabile a fare chiarezza. Persino una di quelle conferenze internazionali che raramente producono risultati questa volta potrebbe essere opportuna. Perché in Libia il tempo lavora contro di noi. E a favore dell’Isis e degli scafisti.