Con la lama dell’Isis alla gola

by redazione | 15 Marzo 2015 10:42

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Il filo della scimitarra mi sfiorava la giugulare. Ai Beatles — era questo il soprannome che avevamo dato ai tre miliziani — piaceva molto la messinscena. Mi avevano fatto sedere per terra. Scalzo. La testa rapata e la barba incolta e indosso l’«uniforme» arancione che ha reso così tristemente famosa la prigione americana di Guantánamo.
John si divertiva a esagerare il melodramma, accarezzandomi il collo con l’acciaio senza smettere di parlare.
«Lo senti? È freddo, vero? Pensa al dolore se te lo affondassi nel collo. Un dolore tremendo. Il primo colpo ti taglia le vene e sputi saliva e sangue».
L’estremista si era fatto portare apposta la scimitarra, un’arma d’epoca, una spadona come quelle che usavano gli eserciti musulmani nel Medioevo, la lama lunga quasi un metro, con l’elsa argentata.
«Il secondo colpo ti squarcia il collo. Già non respiri più dal naso, ma direttamente dalla trachea. Cominci a fare versi strani, a gorgogliare. L’ho già visto. Ti contorci come un animale, come un maiale. Il terzo colpo ti stacca la testa. Poi te l’appoggio sulla schiena».
Faceva di tutto per instillare nell’ostaggio il suo messaggio raccapricciante, affinché apparisse terrorizzato nel video. Deposta la scimitarra, il miliziano è passato alla pistola. Ha estratto una Glock dalla fondina e l’ha caricata. Me l’ha puntata alla testa e ha tirato per tre volte il grilletto. Clic. Clic. Clic.
Si chiama falsa esecuzione. Tirano il colpo con l’arma bloccata dalla sicura. Ma la vittima questo non lo sa. Lo scopre soltanto quando non sente la detonazione e capisce che è ancora vivo.
Ma nemmeno questa intimidazione è parsa sufficiente. La coppia di paramilitari incappucciati decide di esercitare maggiori pressioni su Ricardo, che se ne sta inginocchiato e con gli occhi bendati in un angolo della stanza. John ha ordinato al compagno di puntargli la canna del Kalashnikov alla testa.
«Oppure preferisci che spari al tuo amico? Vuoi essere responsabile della sua morte?» ha urlato.
Se mai avessi avuto dubbi, quell’episodio mi ha confermato il carattere psicopatico dei nostri carcerieri.
Era una litania di minacce che andava a sommarsi alla lunga serie di vessazioni fisiche e psichiche, di privazioni e umiliazioni, che ben presto sono diventate una realtà quotidiana per i ventitré ostaggi, tra europei, americani e una donna sudamericana, rimasti per mesi nel carcere dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) in Siria: un sequestro massiccio che si è concluso con l’esecuzione di sei prigionieri per mano dei fondamentalisti e la morte di un altro ostaggio durante un bombardamento, l’americana Kayla Mueller, secondo quanto riferito dal portavoce dell’Isis.
Altri quindici prigionieri sono stati liberati. I tre ostaggi spagnoli, tra cui l’autore di questa testimonianza, sono stati i primi ad abbandonare il covo dei miliziani, esattamente un anno fa.
A oggi, i fondamentalisti trattengono ancora l’ultimo prigioniero di questo gruppo, l’inglese John Cantlie, il cui destino rimane incerto.
Lo Stato Islamico è riuscito a rastrellare giornalisti e operatori di organizzazioni umanitarie di undici diverse nazionalità — tra cui Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito e Spagna — mettendo in atto un piano sistematico di rapimenti in varie province, come Aleppo, Latakia, Hama e Raqqa, per poi raggrupparli in una prigione che rappresentasse la controparte islamica del controverso centro di detenzione americano di Guantánamo.
«Era un progetto che studiavano da molto tempo. Il loro sceicco iracheno ce l’aveva spiegato fin dal primo istante, che avevano intenzione di sequestrare gli occidentali per rinchiuderli in una prigione di massima sicurezza, con telecamere e guardiani». E noi ci saremmo rimasti per molto tempo perché eravamo i primi prigionieri catturati, ci spiegava James Foley, il giornalista americano catturato a novembre del 2012 insieme al britannico John Cantlie, e assassinato lo scorso agosto.
Solo ora è stato possibile rendere pubblica questa testimonianza, perché il terzetto che custodiva gli ostaggi stranieri ci aveva minacciato senza mezzi termini che avrebbe giustiziato uno di loro se ci fossimo azzardati a parlare con la stampa di quanto visto e sentito «prima che tutto fosse finito», nelle loro testuali parole.
«Quando tutto verrà allo scoperto potrete insultarci quanto vi pare, non ce ne importa niente», ha tenuto a precisare uno degli incappucciati.
«Abbiamo già il nome del prossimo condannato, è il nostro amico Gadget. Se volete che Gadget resti in vita, non parlate con la stampa», ha sbraitato un altro carceriere.
Gadget era il nomignolo affibbiato a Alan Henning, il tassista britannico che tenevano incarcerato dal dicembre del 2013.
I Beatles si divertivano a spaventare gli ostaggi, ma non erano minacce vuote. Il giorno prima ci avevano costretto a guardare la foto di Sergei Nikolaevich Gorbunov, l’ingegnere russo rapito nell’ottobre del 2013. Abbiamo condiviso con lui la prigionia per diverse settimane, finché l’hanno trucidato nel marzo del 2014. Il primo di una lunga serie.
«Che cosa vedi nella foto? Raccontalo agli altri!» mi ha ordinato George.
Voleva che descrivessi la foto scattata a Sergei dopo l’esecuzione. «Lo sceicco gli ha sparato una pallottola esplosiva», puntava il dito quel pazzo scatenato, senza nascondere la sua soddisfazione.
«Devi dire quello che vedi», continuava a urlarmi mentre mi costringeva a fissare lo schermo del computer.
«Vedo Sergei, è morto, ha la barba sporca di sangue, con brandelli di cervello», gli ho risposto.
«Proprio così, ma non vedi il buco enorme che gli ha fatto la pallottola nella nuca?» ha aggiunto il miliziano con lo stesso tono esaltato.
«Forse finirete così anche voi, vi costringeremo a tirarlo fuori dalla terra, a scavare un’altra tomba e vi metteremo a dormire insieme a lui!».
Henning è stato assassinato a ottobre. La sua triste sorte — come quella di tutte le altre vittime — non ha avuto nulla a che vedere con la diffusione o meno dei particolari del sequestro, bensì con la follia assassina dei suoi aguzzini.
John — lo stesso che aveva registrato il nostro video — è stato incaricato di addossare la responsabilità delle uccisioni agli Stati Uniti e al Regno Unito, per la loro partecipazione alla coalizione internazionale che sta combattendo l’Isis in Siria e in Iraq.
(traduzione  di Rita Baldassarre)

© EL MUNDO

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