Cina. Il padrone rosso

Cina. Il padrone rosso

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PECHINO. NON solo Pirelli: la Cina sta acquistando il mondo. Per la prima volta, lo scorso anno, gli investimenti cinesi all’estero hanno superato quelli stranieri in Cina. «Pechino padrona», più del rallentamento della crescita e della corsa al riarmo, è la tendenza che segna la globalizzazione contemporanea. Lo tsunami degli yuan comunisti che sommergono il capitalismo occidentale sconvolge la geografia economica, ma ridisegna anche gli equilibri politici. Nel 2015 la Cina diventerà il primo investitore estero del pianeta: dai 11,1 miliardi di euro esportati dieci anni fa, arriverà a reinvestire in Paesi stranieri 110 miliardi. Il “go global” cinese è cresciuto nella discrezione. All’improvviso, per legittimare la supremazia della nuova superpotenza del secolo, impone la sua onnipresente immagine. A fine gennaio, quando Alexis Tsipras ha vinto le elezioni in Grecia, sono scattati due allarmi: quello noto sull’euro e quello sconosciuto sulla proprietà cinese del Pireo, terminal container più grande del mondo. Gli europei hanno appreso che la distribuzione delle merci nel Vecchio continente è gestita da Pechino.
Il nuovo azionista di maggioranza globale affascina e spaventa. Non si limita più a scambiare infrastrutture lowcost con materie prime nelle nazioni in via di sviluppo. Irrompe nel salotto buono del business, tra gli Stati Uniti e l’Europa. I trofei servono a impressionare, ad annunciare all’Occidente che il motore millenario dell’Asia «is back», è tornato. Un nipote di Deng Xiaoping, per 1,7 miliardi di euro, ha acquistato l’Hotel Waldorf Astoria, icona del lusso a New York. Pechino controlla energia elettrica e acqua potabile di Londra. Un’immobiliare di Shanghai si è assicurata lo Sheraton di Sidney per 365 milioni di euro. Il fondo sovrano cinese si è aggiudicato l’appalto per la ferrovia ad alta velocità che collegherà Belgrado a Budapest e Rotterdam, attraversando il cuore dell’Europa. L’Africa è già cinesizzata, ma gli ultimi progetti segnano un salto di qualità: pozzi di petrolio in Sudan, una centrale idroelettrica in Nigeria, le miniere del carbone nello Zambia, la rete ferroviaria in Libia, i porti del Mozambico. L’opera- simbolo è il canale “anti-Panama” in Nicaragua, per ridimensionare l’influenza Usa sul commercio tra Atlantico e Pacifico. Le luci della ribalta si accendono anche sui nuovi affari. Wang Jianlin, fondatore del gruppo Wanda e primo gestore mondiale di sale cinematografiche, scala Hollywood, acquista il 20% dell’Atletico Madrid e la società Infront, deus ex machina dei diritti del calcio in tivù. Jack Ma, visionario inventore del colosso dell’e-commerce Alibaba, ha battuto ogni record delle quotazioni a Wall Street: 230 miliardi in un giorno.
Da economia socialista assistita chiusa, quello cinese diventa un business senza confini e di mercato. Nulla a che vedere col Giappone anni Ottanta. La Cina investe in 179 Paesi: nel 2012 le nuove imprese all’estero sono state 22mila, nel 2014 si è passati a 34mila, quest’anno il governo prevede che a investire saranno non meno di 50mila. Prima meta gli Usa, ma lo scontro crescente Pechino-Washington rivoluziona i piani cinesi. Dopo Africa, America Latina e Australia, scatta l’ora del grande ammalato: l’Europa in saldo causa crisi. La leadership rossa resta affezionata alla cassaforte inglese. I nuovi miliardari acquistano castelli e i quartieri chic di Londra. Gli obbiettivi sono però il controllo del Mediterraneo e la conquista del mercato continentale. Priorità: Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, alla ricerca di capitali per ricostruire produzione e lavoro.
Nel 2014 il nostro Paese è stato la seconda destinazione degli investimenti cinesi nella Ue: poco meno di 6 i miliardi di euro arrivati, rispetto ai 147 milioni del 2012. Lo shopping di Pechino non si è limitato ai gioielli di famiglia: Eni, Enel, Generali, Telecom, Fiat-Chrysler, Mediobanca, Saipem, Prysmian, Terna, tutti partecipati al 2% dalla Banca centrale. State Grid Corporation China con 2,1 miliardi di euro si è assicurata il 35% di Cassa depositi e prestiti Reti: il gas e l’elettricità del Belpaese. E il cinese l’hanno imparato anche marchi storici dell’Italian style: Krizia ha venduto al suo ex fornitore Shenzhen Marisfrolg, seguendo le orme degli yacht Ferretti e (qui solo partecipazioni di minoranza), di Ferragamo, o dell’olio Sagra e Borio, di Ansaldo energia e di Cifa. I rumors dei mercati, dopo l’opa di ChemChina sulla Pirelli di Tronchetti Provera, annunciano nuovi colpi ad effetto: il Milan calcio di Berlusconi, i cappelli Borsalino, il Molino Stucky di Caltagirone a Venezia.
Le mani di Pechino sull’economia mondiale rispondono a una necessità interna e ad un’opportunità esterna. Il presidente Xi Jinping, per salvare l’egemonia del partito, deve riformare il modello di sviluppo nazionale. Persi i consumatori occidentali va alla conquista dei loro marchi, per assorbire know how, brevetti, conoscenza, tecnologia e immagine. Prezzi bassi, fine della diffidenza anti-cinese e yuan forte. Da materie prime e agricoltura, mercato primario, si passa a credito, industria e immobiliare, mercato secondario. Negli ultimi dieci anni la Cina si è assicurata le materie prime dell’Africa e dell’America latina, l’energia della Russia, i prodotti agricoli dell’Australia e le commesse hi-tech degli Stati Uniti. Dall’Europa ha solo importato aziende delocalizzate e brand del lusso. Ad aprire l’era del “go Europe”, con la zona euro che nel 2014 ha assorbito il 62% degli investimenti esteri, è ora il raffreddamento delle relazioni con gli Usa. Le barriere si alzano, fino ad escludere la Cina dai sempre più allargati “settori strategici”.
In Europa il percorso è inverso: le porte economiche si aprono, i governi democratici dimenticano diritti umani e libertà d’espressione. Il “caso autoritarismo” non pesa più sull’azione dei tre strumenti privilegiati dell’espansione cinese: il fondo sovrano (Cic), la società degli investimenti di Stato (Safe) e la Banca del popolo, attuali cavalieri bianchi mondiali con una liquidità superiore ai mille miliardi di dollari. Fino ad oggi la Cina è stata la culla dell’export di copie low cost. Il nuovo scenario la vede padrona di tecnologia, marchi hi-tech, credito e finanza, del meglio di quello che si definisce «il futuro dello sviluppo ». Alto valore aggiunto, ma la sfida decisiva adesso è la governance: nessuno controlla, né può scegliere, i proprietari del mondo.


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