Ma le preoccupazioni degli oppositori restano marginali per il comitato investigativo travolto dalla rivelazione attribuita a Dadaev. È successo infatti che martedì pomeriggio sia stata ammessa al carcere di Lefortovo una delegazione di rappresentanti delle ong sui diritti umani per verificare le condizioni di detenzione dei cinque arrestati. Tra questi c’era anche una giornalista del Moskovskij Komsomolets che ieri mattina ha pubblicato un’intervista clamorosa. «Sono stato picchiato e torturato. — avrebbe detto Dadaev — Sono stato due giorni con un cappuccio legato attorno alla testa. Poi mi hanno promesso che se avessi confessato avrebbero liberato un mio amico. Ho pensato: salvo lui, arrivo vivo davanti al giudice e sconfesso tutto. Ma non mi hanno più lasciato parlare ».
Furiosa la reazione del pool di magistrati e poliziotti che indaga sul delitto. Secondo prassi è partita subito un’inchiesta sulla giornalista e sull’attivista che la aveva portata con sé, entrambi rei di «aver posto all’imputato questioni relative alle indagini anziché limitarsi a visionare il suo stato di salute». Previsti a breve interrogatori e perquisizioni. Si teme una ulteriore restrizione di certe visite autorizzate nelle carceri. In ogni caso l’inchiesta va avanti sulla sua antica strada. Fonti ufficiose fanno sapere che «a dispetto dell’intervista pubblicata, Zaur Dadaev non ha mai ritrattato formalmente la sua confessione». Resta lui dunque, per la Procura, il capo di un commando tutto ceceno che avrebbe deciso e messo a segno l’omicidio. Anche se altri pezzi rischiano di volare via.
Le telecamere di servizio di un locale notturno scagionerebbero infatti un altro dei cinque arrestati che certamente non sarebbe stato presente sul luogo del delitto. Un’insolita guerra di notizie e indiscrezioni che sembra originata, dicono in tanti, da una guerra in corso tra gli investigatori stessi che farebbero arrivare all’esterno notizie un tempo invece blindatissime.