Bengala I bambini salvati 

Bengala I bambini salvati 

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SHARIPARA (WEST BENGALA). AL CAPO orientale dell’India, nel West Bengala, c’è il villaggio di Sharipara, nella comunità di Sandeshkhali, distretto 24 Parganas Nord. Una stradina lastricata di mattoni rossi e sgangherati corre come un argine fra le vasche di acqua separate da muretti di argilla. L’acqua fa per tutto: risaie, piscicoltura, abbeveratoi per le bestie, abluzioni per gli umani e lavanderia per i loro panni, sguazzatoio per i piccoli nudi. E’ vicino il Golfo del Bengala, inondazioni e cicloni incombono, l’acqua salata brucia le colture, l’arsenico delle falde avvelena. E le facce di ragazze e bambini radunati sono piene di sorrisi.
L’introduttore dodicenne parla a raffica, come se avesse paura di non farcela a dire tutto. «Recuperare quelli che sono stati rapiti. Far tornare a scuola quelli che lavorano. E proteggere le bambine: alcune sono carine, e dunque…», dice. Spiegano le bambine: «Screditiamo il matrimonio infantile. Con i grandi usiamo la persuasione, poi se non ce la facciamo chiamiamo la polizia o il Comitato per la Protezione infantile». «C’è un numero di telefono: 1098». Ma avete il telefono? In 4, su 39 presenti, alzano la mano. «Ce lo facciamo prestare». Riparte il Quickspeaker , come ormai lo chiamo, il Parlatore Svelto: «Appena arriva un forestiero ci informiamo su quale famiglia visita e stiamo attenti ai bambini della casa». «Quando i bambini rapiti tornano ci raccontano tutto, così impariamo com’è fatto il traffico». «Nel nostro villaggio abbiamo 47 bambini riscattati». Qualcuno di loro è presente? Due bambine alzano la mano. Hanno voglia di raccontarlo? Sì, ma dopo, da sole. Si capisce che sono abituati a discutere in comune. «Facciamo un’assemblea al mese, oltre a quelle dettate da un’emergenza ». Il Parlatore Svelto, che si chiama Alam Gir, e una bambina, fanno anche parte del Comitato di Protezione. «Ora conosciamo i diritti. Ci presentiamo alle famiglie in nome della legge». Sono una specie di banda della via Pal, però mista. Ispezionano tutto: i posti dei piccoli fino ai 6 anni, controllano che il cibo sia lavato bene, lo assaggiano. Non ci sono divisioni di religione né di casta, dicono. E se le violenze vengono dall’interno delle famiglie? «Andiamo dalla famiglia coinvolta, chiediamo perché si comportino così e avvertiamo che non si deve: se non basta, chiamiamo il comitato o la polizia».
Si scherza sui maschi: sono un po’ più scemi? «Le femmine sono più in gamba — dichiara un bambino — Tant’è vero che hanno anche un ministero per loro! ». Così una misura che tutela le bambine dallo svantaggio viene vista come il segno della loro superiorità. Chiedo al Parlatore se vorrà fare il politico: «No!», protesta e con lui l’intera assemblea, la politica non va forte nemmeno qui. «Farò il poliziotto ».
Ho qualche altra domanda. I gabinetti? Ce n’è uno per ogni dieci famiglie, cioè un centinaio di persone, circa. Ci sono orari separati e “nascosti” per le bambine? No, assicurano. (Nel Bengala rurale la ”defecazione a cielo aperto” riguarda ancora quasi la metà delle famiglie. «E’ un’illusione che basti fornire gli impianti. Hanno i wc e non ci vanno: preferiscono che ci vadano le mucche…». E mi viene in mente l’aneddotica sui meridionali a Torino negli anni ‘50, che nelle vasche da bagno piantavano il basilico…). Avete dei computer? Nessuno, li vediamo quando andiamo al centro di Save the Children.
Recitano poesie di loro fattura, sul traffico di minori. Sono così gentili da ricopiarmene una per una i testi — non ho avuto il tempo di farle tradurre dal bengali. Infine, si mettono in cerchio e cantano, cantiamo, “We shall overcome”. Poi escono, e resta la ragazzina scampata al matrimonio, Khadijia, 14 anni. E’ la quinta di 10, 4 fratelli e 6 sorelle, fa l’Ottava classe. I genitori le avevano combinato lo sposalizio con un uomo di un altro villaggio, benché lei volesse continuare la scuola. I ragazzi sono andati a parlare col Comitato, e hanno ottenuto che lei tornasse. Delle sue sorelle, le tre maggiori si sono sposate dopo i 18 anni. Quando li avrai tu, vorrai sposarti per amore? «Preferisco il matrimonio combinato», dice, poi precisa: «Sono loro che decidono ». E quando sarai madre tu, con le tue figlie? «Le farò studiare ». Lei vuole fare l’insegnante.
Avvengono cambiamenti epocali in India, che cambiano la storia del mondo e le sue gerarchie. Ma i cambiamenti più emozionanti sono quelli che investono, in un brevissimo giro di generazioni, costumi millenari, che furono nostri e che noi impiegammo secoli a mutare. Uno è la sfida fra il matrimonio combinato e il matrimonio d’amore (e il suo corollario apparentemente paradossale, il divorzio). Secondo Ira Trivedi, autrice di India in Love: Marriage and Sexuality in 2-1th Century , «la sequenza tradizionale è: matrimonio, sesso, e poi, se sei fortunato, amore. Adesso i giovani vogliono l’amore prima di tutto. Sta cambiando, ma proprio per questo c’è un contraccolpo anche violento. I Consigli locali che vietano jeans e cellulari per le ragazze, additandoli come responsabili delle molestie, sono un esempio». Su temi come questi l’India terrà a bada l’islam talebano o il Pakistan incendierà l’islam indiano.
Intanto si sono seduti per terra, dov’erano le bambine poco fa, i 16 componenti del Comitato per la Protezione dei Minori, 10 uomini giovani, 4 donne, e i 2 delegati dei bambini. Si presentano, e invece del mestiere nominano fieramente il ruolo ricoperto in questo o altri organismi: Social Worker, Aiutante agli spostamenti degli scolari, membro del gruppo di Self-Help, ex-membro del Panchay, consulente per la vaccinazione
delle mucche, esperto per la piscicoltura, per il riso… Dicono che «prima» c’erano molti più matrimoni infantili, ragazze truffate, abbandono scolastico. («Prima» è prima dell’Unicef, di Save the Children, dei programmi governativi. Save, spiega il suo giovane responsabile Chitto Sadhu, è qui da 10 anni, e ora coinvolge 200 mila persone). Nel villaggio «dopo il 2012 non ci sono più matrimoni infantili». «Ora le ragazze sono educate, e rispettate per questo». «Andiamo casa per casa, e i bambini con noi. Sono loro a sapere tutto». «I minori rapiti, non basta riportarli: bisogna prendersene cura, perché non sono più gli stessi ». «Possiamo imparare da questi nostri bambini», dice fiero un giovane padre. Qual è il risultato di tutto questo impegno? — chiede Paolo, il nostro accompagnatore dell’Unicef italiana. «Avete sentito la ragazza che è tornata a casa e a studiare: era molto infelice, ora non lo è più. Ecco il risultato!».
La spartizione fra India e Pakistan (1947) fu una delle tragedie del Novecento. A est, dopo l’indipendenza del Bangladesh (1971), una frontiera di 2216 km separa i 161 milioni di abitanti di quel paese dai 91 milioni del Bengala indiano. Più che separarli li fonde: le stesse persone dall’uno e dall’altro lato, la stessa lingua. Dunque si svolge qui una vastissima migrazione, e un enorme traffico di esseri umani, soprattutto minori, e bambine e ragazze. Un traffico altrettanto ingente parte dal West Bengala: lo stato di Calcutta conta 32 milioni di bambini, di cui 23 nelle aree rurali. Nei villaggi ci sono dei “basisti”, pesci piccoli più facili da scoprire. Sopra ci sono vere reti mafiose, e perfino, dice Hriday Chand Ghosh, della Dhagagia Social Welfare Society, qualche mafioso che si infiltra nell’antimafia. «Io sono stato denunciato due volte per aver molestato i trafficanti…». Le bambine sono attratte da falsi messaggi, promesse di boyfriends. Oppure, mandate dalle famiglie a lavorare per aiutare il bilancio di casa, scompaiono senza lasciare traccia nella prostituzione, o vanno spose negli Stati in cui più forte è il divario fra maschi e femmine, come Haryana o Punjab. «Succede che più fratelli sposino la stessa ragazza, risparmiando sulle nozze, e usandone sessualmente in comune». Agli occhi dei ragazzi, Mumbay è il paese delle meraviglie. Dal Bangladesh venivano a fare i fantini, oltre che i servizi domestici. Il lavoro infantile resta enorme, come il Nobel Kalyash Sathiarty non si stanca di denunciare.
L’India è «la più grande democrazia del mondo». Nelle sue (enormi) periferie impressiona la combinazione — non dirò l’amalgama — fra il centralismo di governo e il pullulare di organismi “di base”. Abbiamo incontrato una miriade di sigle e l’orgoglio di appartenervi: governo scolastico, Protezione infantile, Panchayat di villaggio, di circondario, di distretto, comitati contro la Defecazione all’aperto (entro il 2017) e il Matrimonio infantile, per la salute (neonatale, materna, infantile, adolescente…), Wash (Water, Sanitation and Hygiene), per i Media, per le ONG, per i bambini “trafficati”, contro i disastri naturali, e così via. La democrazia diretta nel paese presto più popoloso del mondo è un paradosso, ma questa trama comunitaria “fisica” si lascia immaginare come l’altra faccia della ragnatela virtuale.


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