by redazione | 22 Febbraio 2015 12:23
È evidente che, con i decreti attuativi della famigerata carta di espropriazione dei diritti denominato Jobs Act, la Costituzione non è più la stessa. La prima parte, quella dei valori fondamentali, anche se non ancora toccata in modo esplicito, è indebolita dalla legislazione più recente, vera pistola puntata contro il residuale diritto del lavoro. Frutto della seconda costituzionalizzazione, lo Statuto del 1970 era il compendio di una congiuntura storica irripetibile che presentava condizioni politiche più favorevoli al mondo del lavoro. L’articolo 18 era in fondo il simbolo della relativa potenza accumulata dal lavoro, rispetto al dominio assoluto del capitale, e la dimostrazione dei frutti positivi scaturiti dalla congiunzione di conflitto sociale e grande manovra politica.
Ad essere colpito dalla furia restauratrice del governo Renzi è anzitutto il potere del lavoro e di conseguenza i diritti dei singoli dipendenti si spengono come degli astratti postulati morali. Il segno di classe della riforma strutturale varata dal governo l’ha colto bene l’Ocse che, in uno sperticato elogio delle misure renziane, le ha santificate come l’eden resuscitato della bella volontà di potenza dell’impresa. Nel documento l’Ocse spiega le ragioni del suo innamoramento totale: «accrescendo la prevedibilità la norma riduce i costi reali dei licenziamenti, anche quando sono giudicati illegittimi dai tribunali e incoraggia le imprese». Sono felici soltanto perché il governo ha reso meno costosa la facoltà licenziare.
Quest’assalto normativo alla civiltà del lavoro, con la riduzione del costo del licenziamento, secondo l’Ocse, è una divina benedizione che accrescerà la produttività perché, eliminando del tutto la possibilità del reintegro per l’esclusione dall’impiego per motivi illegittimi, e riducendo anche l’importo dell’indennizzo dovuto a chi viene gettato sul lastrico, il Jobs Act sollecita il risveglio immediato degli spiriti animali del capitalismo. Senza la sbrigativa libertà di licenziare, il capitale non riesce più a investire, a innovare, a competere. E quindi, il piano della nichilistica espropriazione del lavoro, continua ad essere perseguito come la variante più allettante per rilanciare l’accumulazione in un paese che si accasa definitivamente nelle periferie del capitalismo globale e che per il suo de te fabula narratur guarda ormai all’Albania.
La filosofia del renzismo si compie nel segno di una integrale decostituzionalizzazione del lavoro. E la sua genuina essenza ideologica è contenuta nella celebre formula sulla libertà dell’imprenditore di licenziare come segno di una grande innovazione destinata a fare epoca. La nuova legislazione, in effetti, è il cuore delle stravolte riforme post-moderne, quelle capovolte costruzioni giuridiche che sopprimono tutele e piccole libertà dal bisogno e assegnano proprio al soggetto già economicamente più forte il diritto di schiacciare il contraente più debole della relazione lavorativa.
Le condizioni sociali della modernità sono basate geneticamente sul differenziale di potere tra capitale e lavoro. E il diritto del lavoro, nato dallo scontro politico della società di massa, cercava di correggere con gli interventi della legislazione gli squilibri sociali più macroscopici conferendo poteri correttivi al lavoro come potenza sociale collettiva. Ora il diritto muta di segno. E’ costruito il diritto del più forte, cioè è scolpito anche sulla norma il potere legale sanzionatorio del capitale sul lavoro. Quando all’impresa si concede il diritto di licenziare il dipendente anche per un solo giorno ingiustificato di assenza, le si consegna un’arma di coercizione sproporzionata rispetto all’entità dell’illecito. E’ la pura forza dell’avere che succhia l’essere della persona che lavora, nel silenzio della cornice pubblica. Ma Rousseau spiegava che il diritto del più forte non è mai diritto. E quello scritto da Renzi è infatti la pura e semplice sanzione ufficiale e formale del dominio di fatto dell’impresa sulla forza lavoro ridotta a variabile inanimata.
Ad dominio del capitale, scritto già a chiare lettere nelle oggettive leggi dell’economia e confermato nelle anonime regolarità imposte dalla divisione sociale del lavoro, si aggiunge anche la norma di stampo classista che annichilisce la relativa autonomia conquistata nel Novecento dalla legislazione pubblica nel correggere le asimmetrie del rapporto sociale con norme dettate dal senso civile e morale di un’epoca democratica. Il giudice deve ammainare gli strumenti romantici con i quali inseguiva il miraggio della costituzionalizzazione dei rapporti di lavoro. Sebbene con strumenti coercitivi scarichi, perché privi di sanzione effettiva verso l’impresa inadempiente, il giudice del lavoro aveva introdotto la legge e il contratto a più stretto collegamento con l’essere del lavoratore. La bocca del giudice, nell’accertare la adeguata proporzione tra fatto e sanzione, ora si chiude dinanzi alla soverchiante potenza dell’avere, del capitale, che fa ciò che crede della forza lavoro, con il modico prezzo di una indennità.
Si disegna una individualizzazione crescente delle relazioni economiche imponendo un secco rapporto a due, da una parte sta il potere d’impresa che regna incontrastato e dall’altra il lavoro, soggetto ancor più precario appeso alla decisione d’azienda sui tempi, sui costi delle ristrutturazioni, sull’opportunità di un demensionamento di ruolo nel posto di lavoro. Lo scambio indecente tra un (solo) nominativo contratto a tempo indeterminato e un effettivo potere di licenziare senza giusta causa cambia in profondità i rapporti di forza dentro i luoghi di lavoro. Il sindacato è invitato a uscire dalla fabbrica o dall’ufficio, non essendo più rilevante il potere delle organizzazioni nel trattare le condizioni delle ristrutturazioni, degli esuberi, dei tempi, delle mobilità, dei licenziamenti collettivi.
Lo spiegava bene Spinoza: quando un soggetto cede un potere, non ha più le chiavi per rivendicare i suoi diritti. Non esistono infatti diritti fruibili senza una potenza collettiva che li sorregge. E l’attacco del governo è, con qualche perversa sistematicità, indirizzato contro le condizioni (sociali e sindacali) della potenza del lavoro. Strattonato dalle strategie d’impresa che lo rendevano una variabile sempre più precaria, il lavoro viene ora reso liquido anche dalla norma giuridica. Il pubblico si adagia alle esigenze funzionali dell’impresa privata e costruisce un diritto con moduli, tempi, risarcimenti monetari richiesti dal capitale. Con il suo turbo governo Renzi procede a passi di gambero verso l’Ottocento. Nella sua fabbrica entra solo il cartello che intima alla manodopera di perdere ogni speranza di riscatto e di non disturbare il padrone che dà l’opportunità di lavoro, e quindi va santificato.
Nel regime giuridico duale, cioè con la competizione innestata dalla norma diseguale che differenzia tra vecchi e nuovi assunti servendosi di profili discriminatori, l’impresa spera di ottenere maggiori potenziali di ricatto sul lavoro diviso e sotto minaccia in virtù di nuovi poteri dispositivi e sanzionatori. Con il suo Pier delle Vigne, la comandante dei vigili urbani di Firenze nominata sul campo capo dell’ufficio legislativo di palazzo Chigi, Renzi ha davvero posto fine al costituzionalismo della repubblica. Già sepolti i suoi soggetti politici (i partiti ideologici di massa), ora sono spenti anche i suoi soggetti sociali, il lavoro come sovrano della costituzione economica. E’ cominciata un’altra epoca nel segno della destra economica, cioè con lo sfacciato potere dell’impresa, con la sua giurisdizione privata spietata e senza contropartite. Il lavoro è sconfitto, ma non vinto.
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