Non sarà facile, come hanno dimostrato questi giorni e quell’accordo settembrino di Minsk, violato un minuto dopo essere stato firmato. Alla poca credibilità delle parti in causa (sia dei mandanti, Usa e Russia, sia dei protagonisti sul campo, Kiev e miliziani ribelli) si aggiunge il clima di tensione dopo la missione capitanata da Germania e Francia, prima a Kiev e poi a Mosca e conclusasi con poche promesse e ancora meno certezze. Ieri ci sono state alcune schermaglie dialettiche che hanno sottolineato il valore della posta in palio.
In modo forse eccessivamente sensazionalistico, il più chiaro di tutti è stato il presidente francese Hollande: «Se non si arriva ad un accordo condiviso da tutti, la guerra sarà l’unica soluzione». Si potrebbe obiettare: dov’è la novità? C’è già una guerra in Ucraina. Ma Hollande parla di un’altra guerra, non più per procura, ma con truppe Nato sul terreno; una possibilità che aprirebbe scenari a cui nessuno, neppure Putin, vuole pensare. Quindi, tanto per cominciare, è bene chiarire quale sia il punto attuale che non permette un facile accordo: Kiev vuole mantenere i confini della tregua di settembre, i ribelli no, perché sono in vantaggio militarmente. Kiev vuole la sovranità totale sul paese, i ribelli vogliono l’autonomia. Poroshenko ancora ieri a Monaco di Baviera ha escluso la presenza dei caschi blu, i ribelli non sono contrari.
È chiaro che al di là di improbabili novità, il compromesso dovrebbe prevedere un «cessate il fuoco» ai confini stabiliti a settembre, unitamente ad un’autonomia per le regioni orientali. Ma in queste ore che precedono la resa dei conti diplomatica definitiva, i ribelli hanno sferrato nuovi attacchi: vicino a Donetsk, per puntellare il proprio controllo sul territorio e nei pressi di Mariupol, nel tentativo di avvicinare sempre di più i collegamenti via terra tra Repubbliche popolari e la Crimea (la cui annessione alla Russia, viene data per scontata e fuori da quanto si sta contrattando). Nell’ambito delle negoziazioni, è necessario inoltre sottolineare le posizioni di Usa e Germania. Gli Stati uniti, specie negli ultimi giorni, hanno più volte lasciato intendere di pensare ad una soluzione militare. Una strategia giocata sul filo del rasoio, perché in realtà dagli Usa non è mai arrivato un vero e proprio «ok» al riguardo.
Kerry ha chiarito, specie dopo le parole di Hollande e Merkel, che non era un’ipotesi credibile e ieri Biden lo ha ribadito: «Non ci sono soluzioni militari per il conflitto nell’est dell’Ucraina, ma l’Occidente deve continuare a mantenere la pressione sulla Russia finché Mosca non cambierà atteggiamento. Non crediamo –ha aggiunto– che la Russia abbia il diritto di fare ciò che sta facendo e crediamo che il popolo ucraino abbia il diritto di difendersi». La Russia, ha concluso il vice presidente Usa, deve «andarsene dall’Ucraina o affronterà un continuo isolamento e crescenti costi economici in patria».
Poi c’è la Germania. Merkel ha — innanzitutto — soppiantato Lady Pesc, l’italiana Federica Mogherini, senza prenderla nemmeno in considerazione e ponendosi alla testa della diplomazia europea, sottolineando così la propria forza.
Bene ha fatto, dal suo punto di vista, Hollande a porsi immediatamente al suo fianco. Merkel ha così ribadito la centralità tedesca anche negli ambiti politici, prendendo un’iniziativa diplomatica di tale rilevanza; si tratta della prima volta dopo la seconda guerra mondiale. Una risposta politica, anche alle questioni greche e probabilmente spagnole. «Sono convinta che questo conflitto non verrà risolto con mezzi militari, crediamo che la nostra forza stia nella pressione economica», ha detto Merkel in merito all’ipotesi Usa di consentire l’invio di armi in Ucraina. «Il numero delle armi è grande — ha aggiunto — e non ha portato a una situazione in cui vedo una soluzione».