Ucraina, dal 15 il «cessate il fuoco». Ma la tregua resta armata

by redazione | 13 Febbraio 2015 13:16

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La verità è che nes­suno sem­bra cre­dere che potrà fun­zio­nare. L’accordo di Minsk pare avere un unico punto sot­to­scritto in pieno da tutti i par­te­ci­panti al mee­ting svol­tosi mer­co­ledì: il «ces­sate il fuoco» a par­tire dal 15 feb­braio. In que­sto senso l’unico a dire la verità è stato il pre­si­dente ucraino Poro­shenko, che ha ammesso trat­tarsi di un ben misero risultato.

Su quanto rischioso sia l’accordo basta ascol­tare i «fal­chi» della situa­zione ucraina. «Il vero test sarà il rispetto del ces­sate il fuoco sul ter­reno» ha detto il pre­si­dente della Ue, il polacco Tusk, «la mia sen­sa­zione è che dob­biamo essere cauti».

Ha ragione, suo mal­grado, per­ché da quella che è stata defi­nita la «mara­tona» diplo­ma­tica (durata 16 ore) tra Putin, Poro­shenko Mer­kel e Hol­lande, è uscito un docu­mento gene­rico, leg­ger­mente diverso da quello in tre­dici punti, pro­dotto dal gruppo di con­tatto (for­mato da Mosca, Osce, Kiev e ribelli) che ha lavo­rato come i quat­tro lea­der per tutta la gior­nata e la notte. I testi con­cor­dano solo sul ces­sate il fuoco. Tutto il resto — in entrambe le ste­sure — sem­bra posti­ci­pato a una situa­zione di pace che dav­vero pare dif­fi­cile da raggiungere.

Ancora ieri si è com­bat­tuto, e si com­bat­terà fino alla fine dei minuti dispo­ni­bili prima della tre­gua. Un fatto pron­ta­mente sot­to­li­neato dagli Usa e stig­ma­tiz­zato come «incoe­rente» rispetto agli accordi appena fir­mati. I ribelli hanno denun­ciato attac­chi dell’esercito gover­na­tivo, che avreb­bero ucciso tre civili a Donetsk.

Quello che non si è risolto
Gli ele­menti che alla vigi­lia appa­ri­vano tra i più com­pli­cati, quelli pro­pria­mente poli­tici, ovvero l’integrità ter­ri­to­riale o meno dell’Ucraina, lo sta­tus delle regioni orien­tali, non sono stati risolti. Per arri­vare ad un accordo in quel senso ci vuole che una delle due parti accetti la sconfitta.

O quanto meno la ras­se­gna­zione ad una scon­fitta ono­re­vole. E invece Putin e Poro­shenko hanno abban­do­nato Minsk ognuno con le pro­prie cer­tezze, discor­danti e tutto som­mato deboli. Poro­shenko è con­vinto di aver sal­va­guar­dato l’integrità ter­ri­to­riale dell’Ucraina, Putin di aver con­ser­vato l’autonomia delle regioni orien­tali. Nel testo comune si parla di un gene­rico abban­dono del campo di bat­ta­glia di mer­ce­nari, com­bat­tenti stra­nieri (e pure «truppe stra­niere», una for­za­tura ucraina, con­sen­tita da Putin) e armi pesanti, garan­tendo «il pieno rispetto per la sovra­nità e l’integrità ter­ri­to­riale dell’Ucraina».

Il docu­mento tec­nico
Secondo il docu­mento tec­nico — invece — le regioni di Lugansk e Done­tsk avranno il diritto di for­mare forze di poli­zia e magi­stra­tura auto­nome e di deci­dere la lin­gua uffi­ciale; Kiev al riguardo non avrà alcun potere di togliere i poteri agli ammi­ni­stra­tori locali. Anche il docu­mento del gruppo di con­tatto («Insieme di misure per l’attuazione degli accordi di Minsk») non è esente da «buchi».
Putin al ter­mine dell’incontro ha citato una riforma costi­tu­zio­nale che «tenga in con­si­de­ra­zione gli inte­ressi legit­timi degli abi­tanti del Don­bass», di que­stioni rela­tive ai con­fini, uma­ni­ta­rie e dell’attuazione della legge già adot­tata (lo scorso set­tem­bre a Kiev) sullo sta­tus spe­ciale accor­dato alle regioni di Done­tsk e Lugansk, con la con­vo­ca­zione di ele­zioni locali e la defi­ni­zione di con­fini chiari.

Con­fini chiari secondo i ter­mini degli accordi di set­tem­bre che però non coin­ci­dono con la realtà delle cose, che vede uno spo­sta­mento a livello mili­tare, favo­re­vole ai sepa­ra­ti­sti, con­te­nuto negli accordi di oggi, che dovranno essere defi­niti entro un mese da una legge della Ver­kho­vna Rada di Kiev. Viene sta­bi­lita inol­tre la garan­zia per l’arrivo degli aiuti uma­ni­tari e la fine dell’isolamento eco­no­mico delle zone occu­pate decre­tato da Kiev in autunno e quindi il ripri­stino dei paga­menti di pen­sioni e sus­sidi e del fun­zio­na­mento del sistema bancario

Le ambi­guità — ad esem­pio — emer­gono quando viene descritta la situa­zione di Debal­tsevo, lo snodo fer­ro­via­rio e auto­stra­dale fra Done­tsk e Luhansk con­qui­stato dai ribelli, in cui si sono con­cen­trati gli scon­tri degli ultimi giorni: il pre­si­dente russo ha accu­sato la con­tro­parte ucraina di rifiu­tare di rico­no­scere che le forze sepa­ra­ti­ste hanno cir­con­dato i sol­dati ucraini, 6-8mila, che la difen­dono, asse­gnando ai mili­tari sul campo una solu­zione del pro­blema che, ha ammesso, ha il poten­ziale di far ripren­dere i combattimenti.

E Amne­sty ha già lan­ciato l’allarme: poi­ché da entrambe le parti in causa ci sarà il «desi­de­rio di con­qui­stare ter­reno prima dell’inizio del ces­sate il fuoco, temiamo per l’incolumità della popo­la­zione civile».

I punti inter­ro­ga­tivi
Riman­gono dun­que tanti punti inter­ro­ga­tivi; non a caso Mer­kel e Hol­lande alla fine dell’incontro hanno avuto parole di cauto otti­mi­smo, forse per non rovi­nare il clima dopo 16 ore di intense nego­zia­zioni. La verità infatti è che le due parti — Usa e Ucraina da un lato, Rus­sia e sepa­ra­ti­sti dall’altro — sem­brano non avere alcuna inten­zione di scen­dere a com­pro­messi, per­ché una pace vera signi­fi­che­rebbe la scon­fitta per una parte, la vit­to­ria per l’altra.

E nes­suno dei due con­ten­denti vuole per­dere, per­ché tutto som­mato la situa­zione di con­flitto con­ge­lato con­viene molto più che una tre­gua vera.

E i piani di media­zione, discus­sione, pur­troppo per gli ucraini, vedono sul piatto inte­ressi ulte­riori. Come dimo­stra l’assenza della Cri­mea come argo­mento di trat­ta­tiva, un argo­mento già risolto per­so­nal­mente da Poro­shenko e Putin: al pre­si­dente ucraino hanno ria­perto le fab­bri­che del cioc­co­lato e garan­tito il busi­ness dei suoi filo­bus in Cri­mea e l’affare si è fatto. Sul resto, la nego­zia­zione è più ampia, per­ché pre­vede all’immaginario tavolo anche gli Usa. C’è la Siria, l’accordo sul nucleare, ambiti che non sfug­gono a una con­trat­ta­zione che vede nell’Ucraina un primo banco di prova del mondo mul­ti­po­lare. E l’inizio non è dei migliori.

L’accordo rag­giunto a Minsk è al ribasso per tutti: una con­di­zione ovvia quando si deve arri­vare ad un com­pro­messo tra due parti che non accet­tano impo­si­zioni. È al ribasso per Poro­shenko se è vero che si sarebbe deciso di garan­tire uno sta­tus di neu­tra­lità all’Ucraina dell’est rispetto al poten­ziale ingresso della Nato, come sug­ge­rito — pare — da Putin. Poro­shenko, se è vero quanto soste­nuto da Mosca dovrà spie­gare a Kiev que­sta «scon­fitta» e non sarà sem­plice gestire l’umore di un paese che sente il peso della ban­ca­rotta ad un passo, che sof­fre di cla­mo­rose man­canze sani­ta­rie, un sistema al col­lasso e con i neo­nazi pronti a ritor­nare sulle bar­ri­cate in nome della Patria. Putin a sua volta dovrà cer­care di con­vin­cere i sepa­ra­ti­sti che il ces­sate il fuoco è neces­sa­rio – dav­vero – per arri­vare a otte­nere risul­tati politici.

E anche in que­sto caso non sarà sem­plice, per­ché i col­le­ga­menti tra Mosca e i ribelli non si sono sem­pre dimo­strati effi­caci, sono andati a strappi, fin dall’inizio del con­flitto. Pur essen­doci un’ovvia vici­nanza, la sen­sa­zione è che i ribelli non si fidino com­ple­ta­mente di Mosca, pur essen­done al traino, men­tre Putin appare ondi­vago: tal­volta sem­pre sfrut­tare le sfu­riate mili­tare dei ribelli, tal­volta appare in pro­cinto di mol­larli per sem­pre. A Putin tutto som­mato con­viene la con­fu­sione e la garan­zia che quella por­zione di terra rimanga sotto l’influenza di Mosca o quanto meno non sia preda della Nato.

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