I tanti «no» all’intervento in Libia

I tanti «no» all’intervento in Libia

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L’intervento armato in Libia apri­rebbe la strada ad una nuova guerra san­gui­nosa che ali­men­te­rebbe ancora di più il ter­ro­ri­smo, farebbe cre­scere l’instabilità, non aiu­te­rebbe le vit­time. Dopo il dram­ma­tico errore dell’intervento con­tro Ghed­dafi del 2011 –che aprì l’attuale vaso di Pan­dora– una guerra occi­den­tale in Libia non por­te­rebbe a nes­suna solu­zione, ma darebbe l’alibi all’Isis e ad altre fazioni jiha­di­ste di rilan­ciare la «guerra santa» con­tro i «nuovi crociati».

Oggi, la situa­zione sul campo è estre­ma­mente con­fusa. Ci sono due, se non tre governi e auto­rità politico-militari che si inti­to­lano la sovra­nità sul paese; decine di mili­zie jiha­di­ste che si com­bat­tono, cam­biando spesso il fronte e le alleanze; le città sono ter­reno di bat­ta­glia e cam­biano spesso padrone; paesi come l’Arabia Sau­dita e Qatar forag­giano le stesse mili­zie e l’Egitto di Al-Sisi –che non è certo un cam­pione di demo­cra­zia, avendo mas­sa­crato un bel po’ di oppo­si­tori– gioca un ruolo sporco. Sul campo riman­gono le vit­time di una guerra assurda che, per essere fer­mata, non ha biso­gno di altri inter­venti armati, ma di un lavoro di nego­ziato e costru­zione di un accordo tra le fazioni: lo dicono l’ambasciatore ita­liano a Tri­poli e l’inviato spe­ciale dell’Onu, Ber­nar­dino Leon. Per qual­che giorno gli ex paci­fi­sti come Paolo Gen­ti­loni e Roberta Pinotti l’hanno spa­rata grossa dicendo delle scioc­chezze senza costrutto.

Addi­rit­tura la Pinotti ha par­lato dell’invio di 5mila uomini (ne ser­vi­reb­bero in realtà 80-100mila per avere qual­che effi­ca­cia) e ha fatto un para­gone con la mis­sione Uni­fil in Libano, che non c’entra pro­prio niente. Lì c’è un accordo tra Israele ed Hez­bol­lah che, a suo tempo, ha per­messo l’invio di un con­tin­gente di peace kee­ping, in Libia c’è una guerra di tutti con­tro tutti, ai quali tutti si aggiun­ge­reb­bero anche gli occi­den­tali come uno degli attori della guerra. La linea l’ha data Prodi, qual­che giorno fa, quando ha detto che un inter­vento mili­tare non avrebbe alcun senso e che l’unica strada è quella della solu­zione poli­tica. In Libia c’è stato in que­sti quat­tro anni un fal­li­mento della poli­tica cui non sarebbe sag­gio far seguire un fal­li­mento mili­tare, tutto sulla pelle delle persone.

Si dice: biso­gna fer­mare que­sti cri­mi­nali. Certo, ma come: con la guerra? Da quin­dici anni abbiamo a che fare con il feno­meno del ter­ro­ri­smo inter­na­zio­nale e da quin­dici anni affron­tiamo que­sta emer­genza con lo stru­mento mili­tare: guerre, occu­pa­zione degli eser­citi degli stati «cana­glia», inter­venti armati.

Risul­tato? Il ter­ro­ri­smo non è stato debel­lato, anzi si sono mol­ti­pli­cati i foco­lai (sem­pre più ter­ri­bili e disu­mani) di ter­rore e di vio­lenza. È un prin­ci­pio di realtà quello che dovrebbe con­si­gliare di non con­ti­nuare su una strada sbagliata.

È sen­sato quanto dichia­rato dalla rete Disarmo, la Rete della Pace e la cam­pa­gna Sbi­lan­cia­moci in un comu­ni­cato di ieri: «L’Onu, La Lega Araba e l’Organizzazione degli Stati Afri­cani devono essere garanti di un accordo di pace, anche per met­tere alle strette Qatar, Ara­bia Sau­dita ed altri paesi respon­sa­bili della guerra in corso».

Pen­sare di fer­mare il ter­rore con la guerra occi­den­tale è miope e sba­gliato: un inter­vento mili­tare che — qua­lora l’Italia se ne facesse pro­mo­trice– rischia di essere solo una ope­ra­zione di san­gui­noso mar­ke­ting –magari per pro­teg­gere l’Eni e i nostri approv­vi­gio­na­menti e pro­teg­gersi dall’arrivo di nuovi migranti– ma non sarà di nes­sun aiuto per le vit­time, che tutti noi dob­biamo difen­dere e sal­vare. Pen­sare di farlo por­tando altra sof­fe­renza è solo eser­ci­zio di cini­smo poli­tico camuf­fato da patina umanitaria.



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