L’esistenza della bozza contro Kirchner era stata rivelata nel fine settimana dal Clarín, il quotidiano più diffuso in Argentina, da tempo considerato come l’organo di stampa più critico nei confronti del governo. Con un gesto plateale, sprezzante, il capo di gabinetto della Casa Rosada Jorge Capitanich aveva fatto a pezzi poco dopo, davanti alle telecamere, una copia del Clarín, definendo l’informazione pubblicata dal giornale come spazzatura. Il gesto è stato subito criticato pesantemente dalla stampa e da diversi esponenti dell’opposizione parlamentare, ma Capitanich riteneva — pur nell’eccesso della reazione — di avere ragione perché, almeno in un primo momento, era stata la stessa procuratrice Viviana Fein, che conduce le indagini sulla morte di Nisman, a negare il ritrovamento del documento con la richiesta di arresto per Kirchner.
L’equivoco, però, è durato solo poche ore: Fein ha corretto il tiro, riconoscendo un «errore di interpretazione» e dando la ragione ai due giornalisti del Clarín autori dello scoop, Daniel Santoro e Nicolás Wiñazki. La procuratrice ha affermato che la sua prima smentita riguardava semplicemente l’ipotesi che la richiesta di arresto della presidente fosse contenuta nella documentazione con cui Nisman chiedeva l’incriminazione di Kirchner e di alcuni dei suoi più stretti collaboratori, tra cui il ministro degli Esteri Héctor Timerman (un atto d’accusa che il procuratore aveva già annunciato pochi giorni prima della morte e che avrebbe dovuto spiegare nei dettagli davanti a una commissione parlamentare proprio il giorno successivo alla sua tragica scomparsa). C’era però anche una bozza — ritrovata in un cestino dei rifiuti, come Fein ha finito poi per confermare — in cui Nisman si spingeva oltre, chiedendo l’arresto di Kirchner. Un’idea che avrebbe poi accantonato, optando per una soluzione meno traumatica: quella di aprire un’indagine e chiedere l’interrogatorio della presidente, accusandola di aver portato a compimento, due anni fa, un patto illecito con il governo iraniano, da sempre al centro dei sospetti per il massacro del 1994: a cambio di vantaggiosi accordi commerciali per l’Argentina, la Casa Rosada avrebbe fatto tutto il possibile per ritirare le accuse contro Teheran che, già nel 2006, si erano concretizzate con l’emissione di sei mandati di cattura internazionali contro alti dirigenti del regime degli ayatollah.
A due settimane da una morte misteriosa che ha sconvolto l’Argentina, i dubbi sul caso Nisman restano ancora intatti. Suicidio o omicidio? La stessa presidente Kirchner ha contribuito sin dai primi giorni ad alimentare l’incertezza, dicendosi prima sicura che il magistrato si fosse tolto la vita, poi affermando invece di non credere alla tesi del suicidio. Di certo, dalle prove di laboratorio realizzate fino ad ora, è emerso che tutte le tracce di Dna ritrovate sul luogo della tragedia — nei vestiti del magistrato come sulla pistola dalla quale è partita la pallottola mortale — appartengono allo stesso Nisman. Gli investigatori preferiscono però non escludere nessuna pista. Anche perché diverse questioni restano oscure. La procuratrice Fein ha rilevato diverse carenze e irregolarità nel dispositivo di protezione riservato a Nisman (da anni aveva una scorta di dieci agenti). In più, è stato notato che le telecamere a circuito chiuso dell’ascensore di servizio nell’edificio di Puerto Madero non erano in funzione il giorno della tragedia. Impossibile, insomma, verificare se qualcuno sia entrato o uscito in quelle ore.
Resta il fatto che, se Nisman non fosse morto e avesse davvero presentato la clamorosa denuncia contro il governo, la sua tesi di un complotto iraniano-argentino si sarebbe, forse, potuta sgonfiare molto presto. Chi ha consultato il dossier che aveva messo insieme — tra interrogatori, intercettazioni telefoniche e ritagli di giornale — sostiene che le prove in suo possesso fossero davvero deboli. Difficilmente, insomma, sarebbe riuscito a far tremare il governo Kirchner.