Strabismo morale e oscenità della morte

by redazione | 5 Febbraio 2015 15:27

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Lo sdegno è troppo spesso un sentimento a corrente alternata. L’emozione, peraltro, è spesso indotta a mezzo stampa, vale a dire rendendo visibili alcuni (e non altri) frammenti della realtà globale nella quale tutti viviamo immersi, con maggiore o minore consapevolezza; questi frammenti sono presentati al nostro sguardo con un’angolatura che provoca le reazioni attese e scientificamente prevedibili. Da Marshall McLuhan a Ivan Petrovi? Pavlov, andata e ritorno, con l’aggiunta di qualche raffinata tecnica subliminale.

In questo processo non necessariamente c’è malafede o macchinazione: è lo sguardo – la cultura, l’identità – dell’operatore dell’informazione e del facitore di opinione che determina la sua, ma di conseguenza anche la nostra, prospettiva visuale.

Nel caso della guerra, invece, la necessità di torcere verità e dati di fatto a proprio vantaggio è tale che, in tempi recenti, si è arrivati a inventare e teorizzare il giornalismo embedded, ovvero quello che racconta le vicende belliche dal punto di vista dei militari – e del governo – di una delle parti in conflitto.

Una forma di censura e di autocensura, in verità, già tendenzialmente superata dalle nuove forme della guerra altamente tecnologizzata, laddove sul terreno combattono gli “indigeni”, mentre le grandi potenze, i teorizzatori delle guerre infinite e delle guerre di civiltà, si proiettano sulla guerra dei droni, la cyberwar e l’intelligence.

Fatto sta che ci si interessa e ci si appassiona quando c’è immedesimazione. Ci si commuove, perlopiù, per la sorte di qualcuno che riconosciamo – che sentiamo – come simile, appartenente a una stessa etnia, religione, classe sociale, schieramento politico, orientamento culturale… Talvolta è la comune condizione umana a essere alla base dei sentimenti di partecipazione. Ma, anche in questi assai meno frequenti casi, è la scomparsa dei fatti a rendere ininfluente questo più nobile atteggiamento.

 

Omicidi di Stato

Per uscire dal ragionamento generale, è in virtù di tali meccanismi che l’opinione pubblica mondiale (leggasi: occidentale) giustamente inorridisce per l’orrenda morte del giordano Moath al-Kasasbeh, a opera dello Stato Islamico, e non viene minimamente scalfita dall’impiccagione della terrorista Sajida al-Rishawi, a opera dello Stato giordano e della monarchia che lo governa. Il primo era un militare, pilota di caccia, catturato dall’Isis durante una missione in Siria e divenuto un ostaggio nella guerra anche simbolica e mediatica condotta dai seguaci del Califfato; la seconda, militante di Al-qaeda irachena, era stata catturata in Giordana dopo essere sopravissuta a un attentato suicida, avvenuto ad Amman dove il marito, che è riuscito invece a farsi esplodere, ha provocato la morte di numerose persone. Dopo l’arresto, le autorità giordane hanno diffuso un video – strumento ormai utilizzato come arma da tutte le parti belligeranti – con una sua confessione, poi ritrattata e motivata con le torture subite. Da detenuta qual era, ieri è stata trasformata anch’essa in ostaggio, e uccisa in rappresaglia dell’avvenuto assassinio di Moath al-Kasasbeh; assieme a lei il boia ha impiccato un secondo qaedista iracheno, Ziad al Karbouli, mentre altre esecuzioni vengono annunciate.

Omicidi di Stato, in forme diverse ma tutti e obiettivamente raccapriccianti; eppure solo uno di essi ha scosso le pubbliche opinioni e affollato le dichiarazioni politiche. Anche perché uno è stato violentemente scagliato davanti agli occhi e dunque alle coscienze, messo in e sulla scena; gli altri sono stati celati nelle segrete, sottratti alla vista. Eppure entrambi sono osceni, come sempre è la morte e ancor più quando le vittime sono ostaggi o prigionieri.

Come la Storia dovrebbe aver insegnato, e come la cronaca mostra tutti i giorni, la barbarie della guerra e la disumanità della pena di morte trascinano con sé verso l’alto ampie e generalizzate violazioni dei diritti umani.

 

Dopo la primavera, l’inverno dei diritti in Egitto

Nelle stesse ore in cui erano all’opera i boia dell’Isis e della monarchia hascemita giordana, in Egitto il tribunale infliggeva l’ergastolo a un giovane blogger dissidente, protagonista delle proteste di Piazza Tahrir, Ahmed Douma; con lui altri 229 giovani sono stati condannati ad alte pene, accusati di aver manifestato contro la giunta militare.

Da noi Erri De Luca e i ragazzi del No Tav rischiano certamente di meno, ma la logica di fondo (l’insofferenza per la dissidenza, l’arroganza del potere) non è così difforme; se poi consideriamo che, a differenza dell’Italia, dove vige un regime infame e perpetuo che si chiama “ergastolo ostativo”, nell’autoritario Egitto la pena dell’ergastolo in concreto significa 25 anni, le distanze si accorciano ulteriormente.

Le primavere arabe talvolta hanno lasciato eredità peggiori dei regimi preesistenti (l’interventismo militare delle coalizioni occidentali in Iraq, Afghanistan, Libia, invece, lo ha fatto sempre). Ma la risata con la quale Ahmed Douma ha accolto la sentenza ci dice, in forma, diversa, quanto sia vera l’affermazione dello scrittore egiziano Ala al-Aswani: «La rivoluzione è come una storia d’amore. Quando vivi una bella storia d’amore diventi una persona migliore». Primavere e rivoluzioni possono essere, come sono, soffocate nel sangue e nelle celle ma lasciano sempre semi e segni destinati a sbocciare e a far sognare nuovi e diversi innamorati.

Un personaggio discusso come Giulio Andreotti ebbe a dire una volta che se il destino gli avesse portato in sorte di nascere e di crescere in un campo profughi palestinese forse anche lui sarebbe divenuto un terrorista.

Nella classe politica della nostrana seconda Repubblica un’affermazione del genere sarebbe apparsa incomprensibile, prima ancora che sconveniente. Giacché terrorista è sempre l’altro, risulta impossibile identificarvisi o anche solo provare a capirne le origini e le eventuali motivazioni. Ci colpisce la barbarie del pilota arso vivo che l’Isis mette sfrontatamente sotto gli occhi del mondo, non ci turba minimamente l’idea (giacché la relativa immagine viene accuratamente occultata) delle famiglie intere, bambini compresi, che bruciano nelle case devastate dai bombardamenti né ci scuote l’informazione sulla rappresaglia di Stato in corso in Giordania.

Ogni popolo guardi al dolore dell’altro e non solo al proprio e sarà pace, disse il cardinal Martini, il quale, a differenza di Andreotti, aveva meno confidenza e attrazione per la faccia oscura del potere.

Il riferimento, in quel caso, era all’eterno conflitto israelo-palestinese, ma quell’affermazione è assolutamente generalizzabile. E anche aggiornabile: se i soldati del terrorismo e quelli degli eserciti regolari interrompessero la terribile logica dell’occhio per occhio, finalmente il mondo smetterebbe di essere cieco e potrebbe davvero essere pace. Se una piccola parte di esso cessasse di accaparrarsi la gran parte delle ricchezze e delle risorse naturali, finalmente sarebbe davvero giustizia. Che poi è la premessa e la garanzia stessa di una pace piena, vera e duratura.

Sergio Segio

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