In Italia ci sono 3 milioni e 750 mila woorking poor, tra lavoratori dipendenti e autonomi, circa il 16 per cento degli occupati. Solo nel lavoro subordinato sono cresciuti di oltre 600 mila unità tra il 2008, l’anno del fallimento della Lehamn Brothers, e il 2013: erano 2 milioni e 287 mila, sono arrivati a 2 milioni e 970 mila. Tra gli autonomi (come la “partita Iva” Martina L.) sono arrivati a 780 mila unità coloro che hanno un reddito netto orario inferiore ai 2/3 del reddito orario mediano. Vuol dire che prendono meno di 4,8 euro all’ora, mentre per i dipendenti la “soglia povertà” è di 6,2 euro all’ora. Anche questo aiuta a spiegare la discesa del nostro reddito pro capite ai livelli della seconda metà degli anni Ottanta.
E a rischio povertà sono soprattutto i giovani lavoratori under 30 con «effetti disastrosi nel lungo periodo», come dice il professor Claudio Lucifora, economista alla Cattolica di Milano, che da anni indaga sul fenomeno dei working poor. Un basso reddito non porta all’autonomia finanziaria rispetto alla famiglia d’origine e, per le donne, non conduce alla maternità. Nel 1961 le donne italiane avevano in media 2,41 figli, nel 2013 sono scesi a 1,39. E Martina non si vede mamma «né ora né in futuro». Un circolo pernicioso per la società e l’economia italiana. Perché anche l’invecchiamento della popolazione, insieme ai flussi migratori, sono tra le cause del fenomeno dei working poor, visto che «esercitano — ha scritto Lucifora in un rapporto presentato al Cnel — una pressione crescente sulle retribuzioni dei lavoratori meno qualificati». Il resto lo hanno fatto la delocalizzazione produttiva, la trasformazione tecnologica che spinge fuori dal mercato i lavoratori meno qualificati, la terziarizzazione dell’economia, e poi la marcata flessibilizzazione del mercato del lavoro che ha progressivamente ridotto la forza contrattuale delle organizzazioni sindacali.
Ma è la crisi che ha accentuato ed esteso un fenomeno che in Italia è recente e ancora poco visibile perché c’è la famiglia che agisce da ammortizzatore sociale, modulando i suoi interventi, contenendo le disparità, adattandosi alle lacune del welfare state pensato al tempo del solo lavoro standard nella grande fabbrica con capofamiglia uomo. Ancora per quanto?
Cristopher Cariola, 22 anni, vive in famiglia, famiglia operaia. I suoi 530 euro al mese dalla Mc-Donald’s di Rozzano, alle porte di Milano, non gli permettono, appunto, di essere autonomo. Contratto a tempo indeterminato, part time per nulla volontario, perché anche il tempo parziale involontario si è impennato al tempo della crisi e ha contribuito al tracollo degli stipendi. Diciotto ore a settimana, turni di notte. Appartiene alla categoria più a rischio di essere un working poor, quella dei giovani tra i 16 e i 24 anni. Per costoro il rischio è pari al 41,4 per cento (era del 36,8 per cento prima della crisi) contro un rischio medio del 14,9 per cento. Il rischio cala man mano che si alza l’età. Cresce se si è cittadino straniero europeo (31,8 per cento) rispetto a uno straniero extraeuropeo (27 per cento). Sono le donne più a rischio (16,4 per cento) in confronto agli uomini (13,8 per cento).
E donne sono Angela Maiocchi e Maria Luisa Rosolia, entrambe addette alle mense scolastiche. Sono le persone (quasi sempre donne) che cucinano tutti i giorni i pasti degli scolari. L’ultimo Cud di Angela, 54 anni, tre scatti di anzianità, sposata, una figlia disabile, segna 6.350 euro. D’estate per il suo lavoro c’è la sospensione che vuol dire niente stipendio per tre mesi. «Oggi — dice — ho pagato la bolletta del gas e ho fatto un po’ di spesa. Se ne sono andati più o meno 500 euro. Bene, il mio stipendio è durato un giorno!». Si vive con la pensione del marito. Così racconta che una sua collega è andata in pensione dopo venti di lavoro in mensa: 370 euro al mese. Il working poor produce pensionati poveri. Gli «effetti disastrosi» di cui parla Lucifora sono anche questi.
I 500 euro di Rosalia, 45 anni, sono sufficienti per pagare una rata del mutuo. Un’integrazione al reddito familiare più che uno stipendio. Sono professioni poco qualificate e spesso con un basso livello di istruzione quelle intrappolate nei salari poveri. D’altra parte un lavoratore su cinque con basso titolo di studio rientra tra i working poor. Ma attenzione, perché la recessione ha cominciato a stravolgere le regole e incunearsi tra le categorie “protette”. Tra i laureati l’incidenza di lavoratori a bassa remunerazione — si legge nel rapporto curato da Lucifora — «è raddoppiato (dal 3,7 al 7,2 per cento) tra prima e dopo la crisi. La laurea protegge, ma meno del passato, dai rischi». E il rischio è aumentato pure tra gli uomini impiegati italiani occupati nelle grandi imprese. Per questa fascia di lavoratori si è registrato «un peggioramento marcato» pur rimanendo categorie favorite rispetto alle altre: giovani, donne, stranieri, occupati nelle piccole imprese, operai. La famiglia protegge il singolo working poor ma può trascinare nella povertà quando il reddito complessivo, nonostante la presenza di uno o più componenti lavoratori, non sia adeguato, cioè sia inferiore al 60 per cento del reddito mediano. I ricercatori le chiamano “famiglie in-work poverty” e in Italia (dati del 2011) sono circa 2 milioni e 50 mila, pari all’8,1 per cento di tutte le famiglie. Tradotto, significa che circa 6,5 milioni di persone (oltre il 10 per cento della popolazione) si trova in forte difficoltà economica nonostante il lavoro. Ed è aumentato in maniera significativa il rischio di ritrovarsi in-work poverty la quota di famiglie con capofamiglia imprenditore: prima della crisi era a rischio una su dieci, dopo la crisi l’incidenza si è impennata al 17,3 per cento. Lavoratori poveri in imprese povere di imprenditori poveri. Non è questa la strada che ci porterà fuori dalla crisi.