No dei palestinesi al gas israeliano
Il politologo palestinese Talal Okal ascolta le nostre domande. Poi ci risponde che in Palestina, come sempre, il problema non è valle ma a monte. «Gli appelli al boicottaggio dell’economia israeliana sono giustificati dall’occupazione della nostra terra che continua dopo decenni». Tuttavia, ci ricorda, «gli Accordi di Oslo firmati nel 1993 e quelli successivi mettono nelle mani di Israele tutta l’economia palestinese. Non credo che riusciremo a fare scelte davvero indipendenti sino a quando questi accordi rimarranno in vigore». Okal si riferisce al recente contratto da 1,2 miliardi di dollari per la fornitura ventennale all’Autorità nazionale palestinese (Anp) di gas israeliano. Contratto che sta suscitando una ondata di proteste in casa palestinese. La scorsa settimana intellettuali, rappresentanti di forze politiche dell’opposizione e attivisti della campagna Bds (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), tra i quali Omar Barghouti, hanno tenuto un incontro pubblico per denunciare l’accordo e per chiedere che l’Anp segua la strada della Giordania. Qualche settimana fa Amman ha sospeso le trattative con due compagnie, l’americana Noble Energy e l’israeliana Delek, per l’acquisto da Tel Aviv del gas proveniente dal ricco giacimento sottomarino “Leviatano”. «Il popolo palestinese non deve piegarsi ad un contratto capestro, a favore di una parte e a discapito di un’altra – afferma la deputata Khalida Jarrar del Fronte popolare per la liberazione della Palestina — Non dobbiamo normalizzare l’occupazione israeliana, piuttosto dobbiamo liberarci di tutte le forme dell’occupazione». È tutto a posto invece per la Delek che ripete che le intese tra Israele e Anp porteranno “benessere” ai palestinesi, poichè prevedono la costruzione nella città cisgiordana di Jenin dell’impianto che riceverà il gas israeliano.
In questi giorni di forti polemiche interne, alcuni ricordano che Israele ha bloccato centinaia di milioni di dollari palestinesi come rappresaglia per la decisione della leadership dell’Olp di chiedere l’adesione della Palestina alla Corte Penale Internazionale. Altri sottolineano che i palestinesi posseggono un giacimento sottomarino di gas naturale, ad un trentina di chilometri dalla costa di Gaza, ma non riescono a sfruttarlo a causa delle condizioni imposte da Israele. E secondo l’agenzia governativa statunitense “Geological Survey”, altri giacimenti di gas e di petrolio si troverebbero sulla terraferma in Cisgiordania e ancora a Gaza. Le esplorazioni però non sono consentite ai palestinesi. Nel 2013, ad esempio, la “Givot Olam”, una società petrolifera israeliana, comunicò che il pozzo “Meged 5?, presso Rosh Hayin, a cavallo tra Israele e Cisgiordania, ha riserve di greggio ampiamente superiori a quelle stimate in passato. Tanti palestinesi in quell’occasione sottolinearono che l’area del “Meged 5? interessa anche la Cisgiordania. Il pozzo infatti si estende su una zona tra i 125 e 250 kmq, quindi anche in territorio palestinese. Tuttavia il controllo esclusivo che Israele mantiene, 21 anni dopo la firma degli Accordi “transitori” di Oslo, sulla «Area C» della Cisgiordania (60% del territorio occupato dal 1967) non consente ai palestinesi l’accesso alla zona del “Meged 5?.
Lo stesso accade per il giacimento di gas sottomarino, una miniera d’oro per la Striscia di Gaza dove regna la disoccupazione a causa anche se non soprattutto del blocco attuato da Israele e dall’Egitto. Nel 1999 l’allora presidente palestinese Yasser Arafat con un contratto affidò lo sfruttamento del giacimento a un consorzio composto dalla compagnia privata Consolidated Contractors International Company (di proprietà delle famiglie libanesi Sabbagh e Khoury), alla British Gas Group e al Fondo per gli Investimenti Palestinesi. Il consorzio eseguì la perforazione di due pozzi — Gaza Marine 1 e Gaza Marine 2 — ma da allora non sono mai stati sfruttati. Secondo Tel Aviv non esistendo ufficialmente uno Stato palestinese ed acque territoriali palestinesi, il gas di Gaza deve essere commercializzato da compagnie israeliane. A complicare le cose è stato anche un “intervento” del pessimo ex premier britannico Tony Blair, in qualità di inviato del «Quartetto per il Medio Oriente» (Usa, Russia, Onu e Ue). Grazie alla sua “mediazione” e alla debolezza dell’Anp, i tre quarti degli introiti del gas sono stati tolti ai palestinesi e il giacimento di fatto è stato messo sotto il controllo Israele. Hamas, vincitore delle elezioni del 2006, però ha bloccato l’accordo definendolo un furto. L’anno successivo Israele ha annunciato che il gas non può essere estratto sino a quando Hamas sarà al potere.
Il fatto che la Palestina nel 2012 sia stata riconosciuta dall’Onu Stato non membro non ha cambiato nulla. Israele ribadisce le sue condizioni. E non hanno avuto alcun esito pratico i colloqui di un anno fa tra il leader dell’Anp Abu Mazen e il presidente russo Putin volti, secondo l’agenzia Itar-Tass, ad affidare alla Gazprom lo sfruttamento del giacimento del gas di Gaza e alla società, sempre russa, Technopromexport, la partecipazione alla costruzione di un impianto termoelettrico vicino Ramallah. Secondo alcuni l’offensiva militare israeliana “Margine Protettivo” della scorsa estate contro Gaza avrebbe avuto tra i suoi scopi anche quello di impedire l’arrivo di importanti imprese russe in Palestina.
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