I migranti morti sono più di trecento «Spinti sui gommoni con le armi»
LAMPEDUSA (Agrigento) Si sono quasi sfiorati i carri funebri con i 29 migranti morti di freddo lunedì sulle motovedette e gli ultimi nove superstiti arrivati ieri mattina sul molo di Lampedusa. Da una parte, un tetro corteo inghiottito dalla pancia della motonave per le sepolture in Sicilia. Dall’altro, quei nove sopravvissuti emaciati, raccolti da un rimorchiatore, rinsecchiti come manichini, gli occhi sgranati sui soccorritori, a loro volta sconvolti dal racconto di Mussah, vent’anni, la famiglia nel Mali: «Eravamo più di 400 sabato, stipati in un capannone a due passi da Tripoli, trasferiti in spiaggia, a Garbouli, costretti a salire su quattro vecchi gommoni da uomini armati di pistole e bastoni, il mare un inferno, senza potere ribellarci, minacciati, a forza…».
Racconto drammatico come la contabilità del disastro perché con questa e altre testimonianze si capisce adesso che era solo provvisorio il pur pesante bilancio di lunedì, quando le due motovedette della Guardia costiera avevano raccolto sette cadaveri, salvando quasi cento migranti, 22 dei quali poi morti a bordo, uccisi dal gelo perché non c’era posto in cabina, rimasti all’aperto, frustati per quindici ore dalla tempesta.
Niente rispetto ai numeri e alla catastrofe di cui parla chi ha visto salpare i quattro gommoni, un motore da 40 cavalli a testa, dieci taniche di benzina e via senza certezza, se non quella dei trafficanti che avevano già intascato una media di mille dinari per ogni passeggero mandato al massacro di onde alte dieci metri e di un vento gelido da 75 chilometri orari. Adesso, con un eufemismo, si parla di 300 dispersi, quasi tutti provenienti da Mali, Senagal, Costa d’Avorio e Gambia. Ma potrebbero essere anche più di 330 i morti. Perché dei quattro gommoni, due sono quelli del gruppo trovato lunedì pomeriggio, uno è quello di Mussah e degli altri otto migranti recuperati ieri mentre del quarto non si ha traccia.
La cautela della Procura della Repubblica di Agrigento che, «in assenza di relitti e corpi», non conferma il disastro è obbligatoria, ma tutto lascia pensare a una tragedia simile a quella del 2013 quando da tutta Europa si giurò che non sarebbe mai più accaduto. Basterebbe lo sgomento di papa Francesco per dare la misura della pena e della rabbia di chi ha creduto di potere scuotere le coscienze di cancellerie pronte a ridurre gli sforzi di Mare Nostrum via via con Frontex e Triton. E davanti alla nuova tragedia tuona pure il commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks: «Triton non è all’altezza».
Promesse adesso sferzate da tempeste come quella abbattutasi sulle due motovedette partite per il primo salvataggio lunedì scorso. Su una delle due il caso vuole che ci fosse un infermiere dell’Ordine dei cavalieri di Malta, Salvatore Caputo, 66 anni, 40 passati in ospedale vicino a Matera, ieri mattina da volontario salpato di nuovo con gli uomini della Capitaneria per recuperare i 9 superstiti: «Ho visto la morte e la vita intrecciarsi. Ho visto morire quei ragazzi lunedì senza potere fare niente e adesso capisco dai vivi, da Mussah e dai suoi compagni, come sono stati trascinati su gommoni flaccidi».
Eccolo al Centro accoglienza un altro scampato di 25 anni, Buba, la famiglia in Gambia, le mani strette a quelle di Giovanni Abbate, un volontario dell’Oim, l’Organizzazione internazionale dei migranti, sorpreso dalla violenza evocata. Perché Buba, smilzo ma vigoroso, racconta i due mesi nel deserto, le umiliazioni subite per tre mesi a Tripoli, approdo per mettere da parte i soldi della traversata: «Io sabato non volevo partire. Lavoravo come manovale. Ma quattro libici mi hanno catturato e portato su una spiaggia dove c’erano centinaia di persone su quattro gommoni. Mi hanno rubato tutto, 600 dinari e un telefonino, costretto a bastonate a partire. Noi gridavamo che non si poteva per il mare cattivo, ma quelle bestie dovevano liberarsi di noi… E ora siamo vivi grazie a Dio e a voi italiani».
Si scrutano allampanati i sopravvissuti cercando facce che non trovano fra le baracche di un centro dove i più deboli non sono mai arrivati. Mancano tante donne e tanti bambini, inghiottiti dal mare. Ce ne sono solo sei di ragazzini sotto i 15 anni. Tutti della Costa d’Avorio. Dodici il più piccolo, Amhed, la paura disegnata su occhi grandi che la dolcezza di una operatrice di Save the Children, Giovanna Di Benedetto, sembra infine rasserenare. È arrivato da solo e ascolta imbambolato Buba quando spiega con fatalismo il rischio e il destino: «Sappiamo a cosa andiamo incontro, ma inseguiamo un sogno e il sacrificio impone di giocarci la vita per costruire il futuro, mettendola nelle mani di Dio».
Felice Cavallaro
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