Simmetrico a questo, è il rischio di un contagio politico che potrebbe travolgere l’unione monetaria se i creditori di Atene dovessero in qualche modo accedere alla pretesa di Tsipras di rinegoziare il debito greco accettando di alleggerirlo. Le cifre in discussione, di per sè, sono ingenti ma non proibitive. E del resto sono pochi quelli che credono veramente alla possibilità che la Grecia, in un futuro sia pure remoto, arrivi a saldare completamente le proprie pendenze, che ammontano ormai al 170 per cento della ricchezza prodotta. Ma se passasse il principio che un Paese dell’unione monetaria può rifiutarsi di rimborsare il debito contratto con i suoi partner e restare ugualmente nell’euro, si scoperchierebbe un vaso di Pandora politico. In Spagna, in Italia, in Portogallo, in Irlanda i partiti più critici verso l’Europa farebbero del taglio del debito la propria bandiera. E sarebbe una bandiera elettoralmente vincente. Se l’Europa può forse permettersi di convivere con uno Tsipras, non potrebbe sopravvivere ad una secessione generalizzata dei Paesi più deboli dai patti fondativi della moneta unica. La sacralità del debito resta il presupposto fondante di una unione che è e vuole rimanere la seconda potenza economica mondiale e la cui moneta costituisce uno dei cardini dell’economia planetaria.
Partendo da queste premesse, i margini che si offrono alla trattativa tra Atene, Bruxelles e Francoforte, non sono illimitati. Occorre trovare un’intesa che permetta alla Grecia di restare nella moneta unica, che non rimetta in discussione l’integralità e l’integrità del suo debito, e che però consenta a Tsipras di far fronte a questi due impegni senza tradire il mandato democratico che gli è stato affidato dal popolo greco di attenuare le misure di austerità draconiana imposte dall’Europa. E qui entra in scena la politica che, come diceva Otto von Bismarck, un tedesco certo non caro a Tsipras, «è l’arte del possibile». In queste ore, dietro i muri contrapposti di intransigenze sbandierate o appena sussurrate, è infatti in corso una frenetica trattativa per capire chi, da una parte e dall’altra, possa cedere e su cosa.
Innanzitutto c’è un problema di calendario, quasi di cronometro. «Vi chiedo la cosa oggi più preziosa in Europa: il tempo», ha detto ieri il ministro greco delle finanze ai suoi interlocutori tedeschi. Il 28 febbraio scade il secondo programma di assistenza alla Grecia, L’Europa è pronta a rinnovarlo concedendo nuovi crediti, ma Tsipras non vuole perché questo confermerebbe implicitamente la missione della Troika e il rispetto dei patti stabiliti tra questa e i governi precedenti. Atene vorrebbe un accordo-ponte che consenta di arrivare a giugno: data entro la quale conta di aver definito una intesa globale con Bruxelles, ma anche mese in cui la Grecia dovrà restituire alla Bce 3,5 miliardi. Che non ha. Fino a giugno, dunque, il governo ellenico dovrebbe potercela fare se la Banca centrale europea, pur rifiutando i bond greci come garanzia, consentiràalla Banca centrale greca di stampare euro per finanziare le banche private e consentire a queste di acquistare i bond emessi da Atene. Una misura straordinaria che deve essere autorizzata ogni due settimane ma che potrebbe tenere provvisoriamente la Grecia con la testa fuori dall’acqua. Quanto al credito della Bce, che per statuto non può rinunciarvi, si ipotizza che possa essere «girato» al Fondo salva-Stati che, dipendendo direttamente dai governi, potrebbe dare prova di maggiore flessibilità.
Poi c’è un problema di contenuti. La natura di questo accordoponte, che Tsipras dovrà negoziare a partire dal vertice del 12 febbraio con i capi di governo dell’Eurogruppo, deve infatti necessariamente partire dagli accordi finora contratti con l’odiatissima Troika e che prevedevano tagli di bilancio, privatizzazioni, licenziamenti nel pubblico impiego e riforme strutturali di vario genere. Su que- sto mix di politiche economiche esistono margini di flessibilità reali, fermo restando che i saldi di bilancio devono comunque andare in direzione del risanamento. Se il governo greco decidesse, per esempio, di evitare tagli socialmente dolorosi compensandoli con una imposta patrimoniale o altre misure fiscali credibili, l’Europa non avrebbe nulla da eccepire. Inoltre su questo fronte Bruxelles potrebbe venire incontro ad Atene offrendo aiuti o incentivi che permettano di alleggerire in qualche misura i sacrifici imposti alla popolazione più vulnerabile.
Infine c’è un problema di forma. Atene non vuole più la Troika. In altre parole, esige di riacquistare piena sovranità sull’esecuzione delle riforme concordate con Bruxelles. Per questo, preferirebbe che il nuovo accordo prendesse la forma di un «contratto» e non di un «programma» continuamente monitorato dall’esterno. Se fosse solo una questione semantica, l’Europa non avrebbe problemi a dare il proprio assenso. Anche la Troika potrebbe trovare una denominazione e una legittimazione diversa, come del resto hanno già chiesto sia il Parlamento europeo sia la Corte di giustizia di Lussemburgo. Molto più difficile sarà convincere i tedeschi, la Bce e l’Fmi della necessità di allentare controlli e verifiche, visto la lunga e ininterrotta storia di inadempienze, ritardi, promesse mancate e pasticci amministrativi che ha contraddistinto le burrascose relazioni tra la Troika e i governi greci degli ultimi anni. Nell’Europa della moneta unica, la sovranità di un Paese è proporzionale alla sua credibilità. E in questo campo, il deficit di Atene supera di gran lunga quello delle sue finanze pubbliche.