L’annuncio dell’Isis: l’aviazione giordana ha ucciso un’americana nostra prigioniera

L’annuncio dell’Isis: l’aviazione giordana ha ucciso un’americana nostra prigioniera

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AII (Karka, Giordania) Un palazzo di tre piani semidistrutto con altri edifici seriamente danneggiati. Muri marroni sbrecciati, i tetti sfondati, finestre sventrate, macerie e alberi spezzati tutto attorno. Sarebbe questa, secondo i propagandisti dello Stato islamico (Isis), la foto che dovrebbe dimostrare le responsabilità dell’aviazione giordana nella morte della 26enne Kayla Jean Mueller, l’operatrice umanitaria americana che sarebbe stata catturata in Siria nel 2013 e da allora tenuta ostaggio a Raqqa, considerata la capitale dell’Isis in Siria. Le nuove immagini postate nel tardo pomeriggio di ieri sui siti web e gli indirizzi Twitter normalmente utilizzati nell’universo dei simpatizzanti del movimento estremista non mostrano però alcuna foto della donna.
L’unico particolare che dia qualche specifica è che il bombardamento sul palazzo dove, a detta dell’Isis, lei era rinchiusa alla periferia di Raqqa sarebbe avvenuto a metà giornata, durante le funzioni del venerdì musulmano, e sarebbe durato «sullo stesso luogo per oltre un’ora», senza peraltro uccidere o ferire nessuno dei loro uomini. Per ora le autorità americane si limitano a replicare che stanno «investigando» il nuovo documento.
Non stupisce tanta cautela. Come molti degli ultimi messaggi resi noti dai jihadisti in Siria e Iraq, quasi tutti corredati di video e foto, anche quest’ultimo solleva perplessità. Come fanno ad affermare con tanta sicurezza che siano stati i giordani a colpire e non altri aerei della coalizione alleata, visto che sono loro a compiere il maggior numero di raid? Perché non ci mostrano il corpo dell’americana? E come è stato possibile che nessun altro sia stato investito dalle esplosioni?
L’unico dettaglio che potremmo essere in grado di verificare è quello dell’orario. Ieri poco dopo le tredici almeno tre formazioni di caccia, formate da quattro F16 ciascuna, hanno sorvolato la Giordania, sono sfrecciate nei cieli di Amman, per raggiungere a bassa quota i cieli della regione di Karak. Hanno sfiorato le colline erbose che dominano Aii, il villaggio natale del pilota Muath al Kasasbeh, la cui morte — bruciato vivo in un video diffuso pochi giorni fa dall’Isis — ha messo il piccolo regno hashemita sul piede di guerra. I media nazionali confermano che l’aviazione sta colpendo duro. «Sono i nostri aerei di ritorno dai raid contro i terroristi», dicono a Aii. Il rombo dei caccia provoca un’ondata di applausi tra la folla. Inneggiano all’«eroe martire». Giurano vendetta.
Saranno almeno tremila persone assiepate tra le casupole contadine. Arrivano folte delegazioni dei maggiori clan tribali giordani. Ci sono i Barashah, di cui i Kasasbeh rappresentano un sottogruppo, i Rawashad, i Majali, i Tarauna. Soprattutto si fanno notare i rappresentanti delle città palestinesi, figli dei profughi delle guerre del 1948 e del 1967. Sui loro manifesti leggi: Hebron, Gaza, Nablus, Gerico. C’è persino una rappresentanza di sunniti iracheni della regione di Tikrit legati al clan di Saddam Hussein. Nei fatti la loro zona in Iraq oggi è controllata dall’Isis, ma tra i loro profughi sfollati qui in Giordania sono in molti a prendere la distanze. «Per noi i terroristi — criminali che hanno ucciso mio figlio in modo tanto barbaro — non sono musulmani, non appartengono neppure alla razza umana, sono dei subumani, animali, che vanno combattuti con ogni mezzo. Vi ringrazio per essere venuti tanto numerosi a trovarci», dice con voce ferma il padre 68enne del pilota, Safi Kasasbeh tra le grandi tende bianche del cordoglio funebre montate di fronte alla sua abitazione. I giovani del villaggio passano offrendo caffè, datteri e acqua minerale. Dopo le preghiere, è imbandito un grande pranzo a base di montone e riso.
A spiegare in italiano perfetto la svolta che la crudezza del video ha provocato nei sentimenti dell’opinione pubblica giordana è il 52enne Isham Kasasbeh, cugino del morto, che ha vissuto per 33 anni a Napoli. «Prima di quelle immagini terribili erano tanti, anche nella nostra tribù, ad avere simpatie più o meno aperte verso l’Isis. Lo vedevano come la reazione sunnita contro la politica Usa, contro Israele e soprattutto contro i crimini commessi da Assad in Siria e le ingiustizie dei regimi iracheni pro sciiti. Ora non più. L’efferatezza di quel video ci ha uniti e convinti che dobbiamo battere l’Isis, anche collaborando con gli Usa. L’Isis è il nemico che minaccia le nostre case».
Lorenzo Cremonesi


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