Il terrore scuote il Giappone In dubbio il dogma pacifista
by redazione | 2 Febbraio 2015 9:45
PECHINO «Non viviamo più in un mondo nel quale possiamo sentirci al sicuro solo perché siamo giapponesi». Così si conclude l’editoriale del Mainichi Shimbun , uno dei più grandi quotidiani di Tokyo. Ora che si è compiuto il destino di Kenji Goto, il secondo ostaggio giapponese assassinato in una settimana dall’Esercito Islamico che si muove tra Siria e Iraq, opinione pubblica e osservatori internazionali si chiedono se questi due atti di barbarie contribuiranno a cambiare la politica pacifista scritta nella Costituzione del Giappone dal 1947.
In queste prime ore dopo la diffusione del video terribile, prevale il dolore, il senso di incredulità per la morte di Kenji Goto, giornalista freelance di 47 anni, padre di famiglia, che aveva dedicato la vita alla produzione di documentari in zone di guerra, dalla Liberia alla Sierra Leone, al Kosovo, al Medio Oriente. I protagonisti del suo lavoro sono sempre stati gli indifesi, i rifugiati e i bambini. Kenji Goto era così esperto da non definirsi e non atteggiarsi a «inviato di guerra». In Siria c’era tornato in autunno per cercare di ottenere la liberazione del connazionale Haruna Yukawa, 42 anni, un uomo dal passato difficile e controverso che vagheggiava di diventare un consigliere per la sicurezza e si era infilato in un mondo di ferocia. «So che è pericoloso, ma mi sento in obbligo», aveva detto Goto nel suo ultimo messaggio.
«Sono indignato per questo atto di terrorismo immorale e odioso», ha detto ieri all’alba il primo ministro Shinzo Abe. Il primo pensiero di Abe è stato per la famiglia del giornalista: «Pensando al loro dolore sono senza parole», ma poi ha promesso che d’ora in poi la sicurezza dei giapponesi all’estero sarà protetta e che i terroristi assassini pagheranno. Centinaia di persone hanno manifestato ieri pomeriggio davanti all’Ufficio del premier per esprimere cordoglio dopo la morte del reporter e opposizione a Abe: «Colpa tua Abe», si leggeva sul cartello di un manifestante, mentre su un altro, ben più grande, c’era la dedica al reporter freelance: «Kenji, sarai vivo nelle nostre memorie». Abe era in Israele, dopo una tappa in Egitto, quando l’Isis ha diffuso il primo video. Aveva appena offerto a Iraq e Giordania 200 milioni di dollari in aiuti non militari per la loro battaglia contro il terrorismo. Nella gestione della crisi il premier è stato criticato per aver chiesto aiuto alla Giordania, invece che alla Turchia forte di ottimi contatti nella zona.
Si è speculato sul fatto che il premier stesse aspettando l’esito della vicenda, positivo o tragico, per rilanciare il suo piano di reinterpretazione della Costituzione pacifista che impedisce al Giappone azioni militari di forza. Il premier ha comunque promesso «di farla pagare cara agli assassini dell’Isis». Non potendo cancellare l’articolo 9 della Costituzione pacifista (dettato nel 1947 dagli americani) con il quale il Giappone ha rinunciato al diritto di entrare in guerra, Shinzo Abe sta cercando di «reinterpretarlo». Chiede di poter aiutare militarmente alleati sotto attacco e di poter intervenire per soccorrere cittadini giapponesi all’estero. E poi guarda preoccupato alla nuova superpotenza Cina. Ad aprile il suo progetto sarà dibattuto in Parlamento.
Per decenni il Giappone si è affidato a una «diplomazia a tutto campo», guidata solo dagli interessi economici, spesso ambigua. Alla sicurezza militare pensavano gli Stati Uniti. La tragedia dei due ostaggi uccisi potrebbe convincere l’opinione pubblica fortemente pacifista che Tokyo non può più nascondersi dietro una finta neutralità e lasciar fare agli alleati il lavoro sporco e pericoloso.
Guido Santevecchi