Eternit, la Cassazione: «Era tutto già prescritto niente risarcimenti»
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Quante vane speranze. «Per effetto della constatazione della prescrizione del reato, intervenuta anteriormente alla sentenza di primo grado, cadono tutte le questioni sostanziali concernenti gli interessi civili e il risarcimento dei danni». Le vittime dell’amianto, di Casale Monferrato e delle altre città così sfortunate da aver avuto uno stabilimento Eternit a casa propria, non avranno niente.
Le motivazioni delle sentenza con la quale la Corte di cassazione ha annullato la sentenza che condannava per disastro doloso l’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, sono un atto d’accusa verso il modo in cui sono state impostate inchiesta e processi. La causa era giusta, ma il reato contestato era sbagliato. Prescritto ancor prima del via. Si potrà e dovrà discutere se far prevalere il diritto sulla giustizia umana sia una buona cosa per la comunità. Ma la Cassazione mette da subito in chiaro di aver giudicato la fattispecie di reato, solo quella. E la sua bacchettata, gentile eufemismo, risuona forte e chiara. «A far data dall’agosto del 1993» scrive la Suprema corte, era ormai chiaro l’effetto nocivo dell’amianto la cui lavorazione, in quell’anno, era stata «inibita, con comando agli enti pubblici di provvedere alla bonifica dei siti. E da tale data a quella del rinvio a giudizio (2009) e della sentenza di primo grado (13/02/2012) sono passati ben oltre i 15 anni previsti per la maturazione della prescrizione in base alla legge 251 del 2005».
La legge è questa. Se la Cassazione avesse avallato l’impostazione della Procura di Torino si sarebbe giunti a un paradosso giuridico, con una condanna massima troppo bassa. «Colui che dolosamente provoca, con la condotta produttiva di disastro, plurimi omicidi, ovverosia, in sostanza, una strage», verrebbe infatti punito con soli 12 anni di pena. «Insostenibile dal punto di vista sistematico, oltre che contrario al buon senso». La sentenza evidenzia un risvolto troppo spesso taciuto. Il problema delle «patologie tumorali» venne infatti «posto in luce in sede comunitaria agli inizi degli anni 80». Ma l’Italia «non adottò per tempo i provvedimenti dovuti» e la Corte di giustizia europea, «dopo una procedura di infrazione promossa nel 1990, dichiarò l’Italia inadempiente» all’obbligo di dotarsi di una normativa antiamianto. C’è stata «lentezza della politica su problemi di tale fatta».
«Stiamo creando una nuova giurisprudenza». Guariniello è un magistrato abituato a vedere il bicchiere sempre mezzo pieno. «Non condivido il clima cupo e il pessimismo» dice. «Io da questa sentenza aspettavo soprattutto il via libera per procedere per il reato di omicidio». Detto, fatto. Nel pomeriggio il pm torinese ha firmato la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Schmidheiny. Stavolta l’accusa è di omicidio volontario pluriaggravato e riguarda 251 lavoratori e familiari di Eternit, il primo spezzone di un’inchiesta che si annuncia infinita. «Perché non l’ho fatto prima? Non avevo i mezzi. L’omicidio prevede perizie su ogni singolo caso e il processo su cui si è espressa la Cassazione ne conteneva più di 2.000».
A leggere le motivazioni, qualche elemento di speranza per la gente di Casale Monferrato, la città martire dell’amianto, arriva dai passaggi dove la Cassazione rigetta la richiesta della difesa di assoluzione nel merito. «Non esistono le condizioni». Nessuna delle ragioni addotte dai legali di Schmidheiny pare «idonea a giustificare una pronuncia in tal senso». La nostra sentenza, scrivono i giudici, «si riferisce al solo disastro e non considera lesioni, decessi o eventi ulteriori neppure come aggravante». Avanti con l’accusa di omicidio, allora. «Quarant’anni che aspettiamo, una delusione in più o in meno non fa differenza» conclude Bruno Pesce, segretario dell’Afeva, l’associazione delle vittime da amianto. Il futuro, ancora il futuro. Anche perché il presente parla chiaro. Niente giustizia, niente risarcimenti. Niente, e così sia.
Marco Imarisio
La legge è questa. Se la Cassazione avesse avallato l’impostazione della Procura di Torino si sarebbe giunti a un paradosso giuridico, con una condanna massima troppo bassa. «Colui che dolosamente provoca, con la condotta produttiva di disastro, plurimi omicidi, ovverosia, in sostanza, una strage», verrebbe infatti punito con soli 12 anni di pena. «Insostenibile dal punto di vista sistematico, oltre che contrario al buon senso». La sentenza evidenzia un risvolto troppo spesso taciuto. Il problema delle «patologie tumorali» venne infatti «posto in luce in sede comunitaria agli inizi degli anni 80». Ma l’Italia «non adottò per tempo i provvedimenti dovuti» e la Corte di giustizia europea, «dopo una procedura di infrazione promossa nel 1990, dichiarò l’Italia inadempiente» all’obbligo di dotarsi di una normativa antiamianto. C’è stata «lentezza della politica su problemi di tale fatta».
«Stiamo creando una nuova giurisprudenza». Guariniello è un magistrato abituato a vedere il bicchiere sempre mezzo pieno. «Non condivido il clima cupo e il pessimismo» dice. «Io da questa sentenza aspettavo soprattutto il via libera per procedere per il reato di omicidio». Detto, fatto. Nel pomeriggio il pm torinese ha firmato la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Schmidheiny. Stavolta l’accusa è di omicidio volontario pluriaggravato e riguarda 251 lavoratori e familiari di Eternit, il primo spezzone di un’inchiesta che si annuncia infinita. «Perché non l’ho fatto prima? Non avevo i mezzi. L’omicidio prevede perizie su ogni singolo caso e il processo su cui si è espressa la Cassazione ne conteneva più di 2.000».
A leggere le motivazioni, qualche elemento di speranza per la gente di Casale Monferrato, la città martire dell’amianto, arriva dai passaggi dove la Cassazione rigetta la richiesta della difesa di assoluzione nel merito. «Non esistono le condizioni». Nessuna delle ragioni addotte dai legali di Schmidheiny pare «idonea a giustificare una pronuncia in tal senso». La nostra sentenza, scrivono i giudici, «si riferisce al solo disastro e non considera lesioni, decessi o eventi ulteriori neppure come aggravante». Avanti con l’accusa di omicidio, allora. «Quarant’anni che aspettiamo, una delusione in più o in meno non fa differenza» conclude Bruno Pesce, segretario dell’Afeva, l’associazione delle vittime da amianto. Il futuro, ancora il futuro. Anche perché il presente parla chiaro. Niente giustizia, niente risarcimenti. Niente, e così sia.
Marco Imarisio
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