Egitto, scontri e rabbia degli ultrà «Lo Stato uccide a sangue freddo»
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Scarpe da ginnastica e mocassini giacevano ieri in piccoli cumuli nella polvere davanti allo stadio del Cairo. Appartenevano ai tifosi del Zamalek — almeno 22 — rimasti uccisi l’altro ieri sera nel tentativo di andare a vedere una partita. Mentre i parenti piangevano i morti, le autorità hanno sospeso tutti i campionati di calcio nel Paese. E l’immagine di stabilità — priorità assoluta del presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi — pare sempre più un miraggio.
I tifosi sono morti schiacciati nella calca davanti allo stadio, dopo che la polizia ha lanciato dei lacrimogeni. Le autorità accusano gli ultrà del Zamalek, detti i Cavalieri Bianchi: «Avevano tentato di forzare l’ingresso senza biglietto». Gli ultrà negano e ribattono che gli agenti li hanno costretti a entrare per un passaggio troppo stretto, tra sbarre e filo spinato, e poi il fumo dei lacrimogeni avrebbe causato il panico. I rapporti tra ultrà e polizia sono spesso stati tesi, anche perché molti dei primi marciarono contro Mubarak nel 2011; c’è dunque chi grida al complotto politico: uccisi per essersi schierati con Tahrir. I sostenitori del governo, incluso il presidente del Zamalek, dicono invece che gli ultrà sarebbero stati infiltrati dai Fratelli Musulmani.
Il nuovo sanguinoso incidente provoca comunque nuove critiche contro le forze di sicurezza, dopo la morte di un’attivista socialista disarmata, Shaimaa Al-Sabbagh, nell’ultimo anniversario della rivoluzione. Un mese fa, Al-Sisi ha spiegato che, nell’attuale emergenza, con la guerra al terrorismo nel Sinai, alcune violazioni dei diritti umani sono purtroppo inevitabili. Ma dopo i recenti processi di massa — 183 islamisti condannati a morte e 230 attivisti laici puniti con l’ergastolo — molti avvocati e 17 organizzazioni dei diritti umani hanno avvertito che la repressione di ogni opposizione e una magistratura cieca verso i diritti degli individui rischiano di radicalizzare i cittadini contro lo Stato. La liberazione di Peter Greste, uno dei tre giornalisti di Al Jazeera incarcerati per presunto appoggio ai Fratelli Musulmani, e la speranza che lo stesso avvenga per i suoi due colleghi (uno dei quali assistito da Amal Clooney) sono segnali positivi ma anche atti a discrezione del raìs. Non è la prima volta che anche il calcio diventa teatro di scontro politico: accadde tre anni fa a Port Said nella strage di 74 tifosi dell’Ahly. E oggi gli egiziani lamentano: «Il nostro sangue non vale niente».
Viviana Mazza
Il nuovo sanguinoso incidente provoca comunque nuove critiche contro le forze di sicurezza, dopo la morte di un’attivista socialista disarmata, Shaimaa Al-Sabbagh, nell’ultimo anniversario della rivoluzione. Un mese fa, Al-Sisi ha spiegato che, nell’attuale emergenza, con la guerra al terrorismo nel Sinai, alcune violazioni dei diritti umani sono purtroppo inevitabili. Ma dopo i recenti processi di massa — 183 islamisti condannati a morte e 230 attivisti laici puniti con l’ergastolo — molti avvocati e 17 organizzazioni dei diritti umani hanno avvertito che la repressione di ogni opposizione e una magistratura cieca verso i diritti degli individui rischiano di radicalizzare i cittadini contro lo Stato. La liberazione di Peter Greste, uno dei tre giornalisti di Al Jazeera incarcerati per presunto appoggio ai Fratelli Musulmani, e la speranza che lo stesso avvenga per i suoi due colleghi (uno dei quali assistito da Amal Clooney) sono segnali positivi ma anche atti a discrezione del raìs. Non è la prima volta che anche il calcio diventa teatro di scontro politico: accadde tre anni fa a Port Said nella strage di 74 tifosi dell’Ahly. E oggi gli egiziani lamentano: «Il nostro sangue non vale niente».
Viviana Mazza
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