Debaltsevo, la disfatta ucraina In mano russa il nodo strategico

by redazione | 19 Febbraio 2015 10:42

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 SACCA DI DEBALTSEVO Il gruppo di soldati sta separato dal resto della truppa dei secessionisti filorussi. Hanno visi asiatici, zigomi alti, occhi a mandorla. «Sono siberiani che vengono dalla steppa. I nostri alleati russi migliori», dice sorridente un miliziano. Si notano facilmente proprio di fronte all’ultimo posto di blocco due chilometri prima della linea dei combattimenti alle periferie della città assediata di Debaltsevo, presso il villaggio devastato di Ugligorsk. Soprattutto, le loro uniformi appaiono migliori di quelle ordinarie, ottimi stivali caldi, imbracciano fucili da cecchini ben oliati con lunghi cannocchiali montati e mitra leggeri a tracolla, tutti hanno la radio al petto.
«Truppe speciali russe, non parlano con nessuno, hanno un loro comando autonomo», azzarda un collega della stampa tedesca che sa il russo. Potrebbe essere. Proviamo ad avvicinarci. Ma veniamo fermati dal gesto perentorio di un loro ufficiale. «No foto!», grida in russo. Poco dopo riusciremo a filmarne rapidamente alcuni, ma il grosso è già ripartito verso la linea del fuoco.
Sono stati loro gli elementi determinanti per la vittoria del fronte filorusso a Debaltsevo? Sono loro che adesso sono ben trincerati nella stazione ferroviaria, controllano i palazzi più alti e stanno terminando di «ripulire» la zona urbana dagli ultimi centri di resistenza dei soldati ucraini leali a Kiev? Non possiamo dire con certezza, ma la domanda è più che legittima e supportata da forti evidenze sul campo. Quello che appare invece ovvio è che gli ucraini hanno subito una delle sconfitte più gravi dall’inizio dei combattimenti l’anno scorso.
Tra meno di una settimana ricorrerà il primo anniversario della defenestrazione a Kiev del presidente filorusso Viktor Yanukovich. Per lui, Vladimir Putin e i loro alleati nell’Ucraina orientale non poteva essere festeggiato in modo migliore. Debaltsevo segna la loro riscossa, lava l’offesa della rivoluzione filoccidentale di piazza Maidan. Non importa che arrivi solo al quarto giorno dell’inizio della supposta messa in pratica degli accordi per il cessate il fuoco tanto faticosamente raggiunto, anche grazie alla mediazione dell’Unione Europea. Qui, a differenza del resto dei circa 500 chilometri di fronte, non si è mai cessato di combattere. E i tentativi del nuovo presidente ucraino Petro Poroshenko di presentarla come una «ritirata strategica, ben ordinata», visti dal campo, suonano vuoti e patetici.
In verità, è stata una rotta caotica, una fuga scomposta e disperata di unità spossate, affamate, demoralizzate, con le munizioni ridotte al lumicino. Tutto questo era già evidente cinque giorni fa, quando a tutti gli effetti i filorussi avevano chiuso il cerchio di fuoco dell’assedio e bloccato le strade che collegavano l’enclave di Debaltsevo con le linee di rifornimento ucraine a nord-ovest.
Ad Artemivsk e Vuhlehirsk, le cittadine più prossime alla sacca controllate da Kiev, da ieri mattina arrivano in ordine sparso gruppetti di uomini sporchi, le facce nere di fuliggine, desiderosi di riposo. Tanti sono fuggiti per chilometri e chilometri a piedi nella campagna senza alcun collegamento con i comandi. Alcuni camion ancora funzionanti trascinano altri fuori uso. È la Caporetto degli ucraini occidentali. Raccontano che negli ultimi giorni sono rimasti nascosti nei loro bunker tra le macerie senza poter neppure uscire per i bisogni corporali. Freddo e sporcizia. Alcuni confessano che non sono riusciti ad accedere alle cucine da campo e sono stati i pochi abitanti rimasti nelle cantine delle case danneggiate a portare loro tè caldo e cibo.
Una delle poche notizie confortanti è che probabilmente il numero delle vittime civili o militari è molto minore di quanto paventato negli ultimi giorni. Per motivi opposti, le due propagande tendevano rispettivamente a denunciare «migliaia di morti e feriti». Un capitano dell’esercito ucraino venerdì scorso di fronte all’ospedale di Vuhlehirsk ci aveva detto che «centinaia e centinaia di morti, magari oltre 3 mila» restavano insepolti. Ma ieri i portavoce militari di Kiev hanno parlato di «ventidue morti negli ultimi giorni» tra i loro soldati. I feriti sarebbero meno di 200. Resta confuso il numero dei prigionieri. In un primo tempo a Donetsk si ipotizzavano sino a 8 mila nemici intrappolati. Ora Kiev parla di una ritirata di 2 mila uomini. E i filorussi segnalano di averne chiusi 153 nelle loro carceri. Secondo Poroshenko, l’80 per cento dei suoi effettivi è ora fuori dalla sacca.
La battaglia vista ieri nelle sue battute finali dal lato dei filorussi aveva la fragranza dolce del trionfo. Percorrendo tratturi tra il fango e la neve gelata, scavati fondi dal passaggio di carri armati e camion pesanti, abbiamo superato tutte le postazioni dove eravamo stati fermati nei giorni scorsi. Più ci si avvicina alla città contesa e più le distruzioni sono massicce. Una stazione di benzina carbonizzata, edifici sventrati, muri segnati da giorni e giorni di mitragliate. Si è combattuto metro dopo metro.
Impressionano i giganteschi complessi industriali, le acciaierie, i pozzi minerari, i silos del petrolchimico, le ragnatele di linee dell’alta tensione, i dedali di tubi ferrosi dei vecchi gasdotti, tutti seriamente danneggiati dalle bombe. Questo era il polmone industriale del gigante sovietico. Le sue fabbriche sembrano adesso vere cattedrali nel deserto, desuete, nere e arrugginite. Ma non è difficile comprendere la loro valenza per un nostalgico dell’ex Urss come Putin. «Per i fascisti di Kiev la sorte è stata segnata tra il 10 e l’11 febbraio, quando abbiamo tagliato tutte le loro vie di collegamento», dice Piotr, 30 anni, comandante del battaglione «Diesel».
Quando arriviamo a Ugligorsk il rumore della batta glia si fa molto vicino. La strada è bloccata da barricate di terra e macerie di cemento. I miliziani da qui fanno avanzare solo le auto delle radio e televisioni russe. Transitano scortati quelli di Russia Today . Più tardi in rete trasmetteranno le immagini dei filorussi che piantano la loro bandiera sugli edifici più alti di Debaltsevo «liberata».
Tra le casupole qui attorno, quasi tutte abbandonate se non per un pugno di vecchi, bivaccano le teste di cuoio incaricate della spallata finale. Su di un foglio di carta segnano la mappa della loro avanzata nel cuore della città, passando per il villaggio di Svetlodansk. «Ma non avreste dovuto rispettare il cessate il fuoco?», chiediamo. «A Debaltsevo gli accordi non valgono. Questa è la nostra patria», rispondono .
Lorenzo Cremonesi
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