by redazione | 15 Febbraio 2015 16:25
IERI un tg Sky dell’ora di colazione aveva uno dei suoi sondaggi fra gli spettatori: chiedeva se fossero d’accordo con la dichiarazione di Paolo Gentiloni sulla disposizione dell’Italia a intervenire in Libia in un contesto di legalità internazionale. A domande simili il pubblico italiano risponde di norma con un riflesso condizionato, fatto di pace e di rimozione: in quel tg di ieri poco meno dell’80 per cento approvava Gentiloni. Forse si comincia a sentire il fiato jihadista sul collo, a distanza di un braccio di mare? Quel braccio di mare nostro di cui gli annegati delle guerre si vanno ubriacando fino a prosciugarlo? Appena qualche ora dopo, a Copenaghen, a distanza di un braccio di terra, un generoso e spensierato incontro a 8 anni dalla condanna a morte dei vignettisti blasfemi contro Maometto è stato interrotto da una raffica omicida. Intanto, anche la radio del sedicente Califfato si pronunciava sul nostro ministro degli esteri, senza sondare gli ascoltatori: il Califfato ha il cento per cento per statuto. L’Italia è dunque parte della crociata, dicono, e in prima fila.
Non ho visto com’è andato il sondaggio nei nostri telegiornali della sera. Qualcuno commenterà che le parole di Gentiloni avrebbero potuto aspettare i fatti, e guadagnarsi l’attenzione dell’Internazionale jihadista per i risultati piuttosto che per l’intenzione. In realtà l’attenzione non mancava affatto, e la “Roma” evocata nei proclami dei tagliagole e nelle illustrazioni di piazza san Pietro non è affatto una metafora. Due giorni fa l’agenzia curda Rudaw ha diffuso il video girato da un combattente dell’Is e ritrovato sul suo cadavere alle porte di Kirkuk. Due farabutti adulti istruiscono un adolescente sull’uso di un’autobomba suicida — morirà infatti fra poco, senza portarsi altri nel suo paradiso — lo abbracciano festosi e gli ripetono che Kirkuk e poi Erbil sono le prossime tappe “sulla via di Roma”.
Dunque l’Is ha anche una radio… Una radio? L’Is ha tutto quello che serve a simulare uno Stato, dagli armamenti sottratti all’esercito iracheno di fabbricazione americana, ai video hollywoodiani, alla polizia dei costumi (ieri, appena presa Sirte, radio inclusa, hanno diffuso la loro tavola di comandamenti sull’abbigliamento femminile e il resto), ai tribunali della sharia. E, tanto per intenderci, l’Is a Mosul batte moneta da mesi. Mentre a Copenaghen si dibatteva, bellissima idea, in un caffè concerto della libertà di espressione, al cospetto dell’ambasciatore francese e del vignettista braccato, mentre in Ucraina la dilazione permetteva di giocare sanguinosamente un altro po’ alla guerra, per essere meglio piazzati a ricominciarla, gli affiliati all’Is passavano da Derna a Sirte, continuavano a infierire nel Sinai, muovevano con Boko Haram all’assalto di Goma, tenevano o guadagnavano posizioni in Siria e in Iraq. Nei giorni scorsi uno strano concorso si è svolto sul tema se sia più pericolosa la guerra per l’Ucraina o quella del Medio Oriente: la risposta esatta avrebbe dovuto almeno mostrarne la connessione. L’informazione oscilla come il coro della tragedia greca, un giorno verso Donetsk, il giorno dopo verso Aleppo.
Non c’è nessun “kafir”, infedele, persona o paese, che possa sentirsi al riparo dal jihad islamista. Il terrorismo politico di formazioni arabe di altri tempi consentiva furbizie e sotterfugi, per il terrore superstizioso di oggi non ci sono mediatori come il colonnello Giovannone. Questo vuol dire anche che quando si dice che «la soluzione è in Libia» (Renzi) o «siamo pronti a batterci in Libia», non si può fermarsi lì, e tantomeno tornare indietro. Lo Stato italiano è già impegnato in Iraq, non solo attraverso la Cooperazione, di cui occorrerà anche informare, ma militarmente. In settembre sono state fornite alle forze curde mitragliatrici in dotazione all’esercito italiano, e il munizionamento relativo. In ottobre sono entrati “in teatro” (in Kuwait) un velivolo KC-767 per rifornimento in volo; due velivoli a pilotaggio remoto Predator, per la ricognizione; una cellula di ufficiali per le attività di pianificazione. Si sono aggiunti poi 4 Tornado (che non partecipano ai bombardamenti). Il contributo più rilevante viene considerato l’addestramento: sminamento, tiratori di precisione, controcarro, neutralizzazione di «ordigni esplosivi improvvisati». Si prevede il dispiegamento in Iraq di circa 280 militari, di cui 200 nel Kurdistan e 80 con funzioni di consulenza per gli alti comandi a Bagdad. Tuttavia finora solo 68 tra formatori e genieri sono già arrivati. I responsabili del governo italiano più impegnati su questo fronte, Roberta Pinotti, ministro della difesa, e Lapo Pistelli, vice ministro degli esteri, sottolineano che il contributo italiano è il secondo per dimensioni fra i 12 Paesi che si sono candidati a sostenere l’addestramento, e risulta fra i più tempestivi. Giudizio che ha un’altra faccia: quanto piccola e renitente sia la partecipazione reale alla cosiddetta Coalizione, i cui membri per lo più mostrano la mano e si guardano dal tirare pietre. L’Is a Mosul è ormai in conflitto con milizie sunnite come i Naqshbandi, ai comandi dell’ex vice di Saddam, Ezzat al Duri, il famigerato “re di fiori” della lista americana. Le tribù sunnite però non si muoveranno finché prevarrà la paura di esser lasciate sole. In cielo, oltre alla reazione giordana, gli americani si limitano a intervenire al di qua della “linea rossa”, quando bisogna arginare un pericolo, e i francesi colpiscono più a vasto raggio. Per ora, a parte l’indispensabile attività aerea, la guerra allo Stato islamico viene combattuta sul terreno per le interposte persone dei curdi. Questo si traduce in molte fotografie che noi non guardiamo. Per esempio quella dei 17 peshmerga catturati a Kirkuk ed esibiti in gabbia con le tute arancione d’ordinanza. Anche loro hanno madri che manifestano e rivolgono appelli.
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