Dal caos della Libia ai mancati soccorsi tutte le falle di Triton
Mezzi ridotti, aree di sorveglianza ad appena 30 miglia dalle nostre coste. E i trafficanti di uomini che sfruttano la situazione “fuori controllo” di Tripoli costringendo i migranti a partire comunque.
ROMA . Triton non funziona perché non poteva funzionare. Perché è nata come operazione di pattugliamento e non di soccorso, e tale è rimasta nonostante i morti. Perché i mezzi impiegati, inferiori per dimensioni e numero rispetto a quelli di Mare Nostrum, non bastano durante le emergenze nel Canale di Sicilia. E perché di quel “principio di deterrenza” su cui si basa, secondo il quale retrocedendo l’area sorvegliata a 30 miglia dalle coste italiane sarebbero diminuite le partenze dalla Libia, Eremias Ghermay, Abdel Raouf Qara e gli altri trafficanti se ne infischiano.
LA SAR DI COMPETENZA
Loro continuano a fare quello che hanno sempre fatto, Triton o non Triton: sulle spiagge libiche inzeppano un gommone di disperati a cui danno un satellitare e un numero di telefono da chiamare, quello della Guardia Costiera. Li costringono a partire anche se il mare è forza 8 e ci sono onde alte 9 metri, come è successo per i gommoni dell’ultima strage. Ora, in quel tratto di Mediterraneo, Frontex (agenzia europea che gestisce Triton), le convenzioni nautiche e gli accordi tracciano linee che dividono il mare in zone di soccorso: le Sar, aree Search and Rescue in capo a ogni Stato. Ma si sono rivelate inutili. Tocca alla capitaneria o alle altre forze di polizia italiane a intervenire. Un esempio? 8 febbraio: il primo gommone con 104 migranti (di cui poi 29 morti di freddo) intercettato da due motovedette italiane a 58 miglia a nord di Tripoli, il secondo (quello semi-affondato con sole 2 persone a bordo delle 105 partite) avvistato dall’aereo “Manta 10-03” della Guardia Costiera a 71 miglia a nord est da Tripoli, il terzo (con 7 superstiti) soccorso, oltre che da un mercantile di passaggio, da due motovedette della capitaneria più o meno alla stessa distanza. Fuori dalla Sar di nostra competenza.
I DISPOSITIVI NAVALI
La verità è che, con Malta senza risorse economiche e la Libia in mano alle katibe, bande tra le quali alcune «a forte connotazione jihadista», come sostiene un report della nostra intelligence, chi si prende l’onere dei soccorsi è sempre e solo l’Italia. Col risultato che Triton, entrata a regime il 1 gennaio 2015, finisce per ribaltare l’effetto cui puntava il ministro dell’Interno Alfano, ovvero responsabilizzare gli altri paesi Ue nel controllo del confine meridionale dell’Europa. «Triton non è all’altezza, l’Europa ha bisogno di un sistema di ricerca e salvataggio efficace», dice il commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks.
Triton, dunque, è un fallimento. Non disincentiva i migranti, non aumenta l’efficacia dei salvataggi. Lo dicono i fatti. Mare Nostrum costava al governo italiano 9 milioni di euro al mese, ma dispiegava, in una fascia che si allargava fino a poche miglia dalle coste libiche, una nave e due corvette della Marina militare, 2 pattugliatori, 6 elicotteri, 2 aerei droni e circa 700 militari. Triton la paga Frontex, però i finanziamenti sono di appena 2,9 milioni di euro al mese, divisi per i 17 paesi che offrono il loro sostegno. E il dispositivo navale varia a seconda dei soldi. Oggi dentro le trenta miglia attorno alla Sicilia, Lampedusa e Pantelleria ci sono 4 motovedette (2 della Guardia di Finanza e 2 della Guardia costiera), 2 pattugliatori (uno della Marina e l’altro islandese), 2 aerei (maltese e islandese), 1 elicottero della Finanza, 2 mini pattugliatori maltesi. «Nessuna carretta del mare può arrivare fino a lì», osserva una fonte del Viminale, «affondano tutte prima, a meno che non siano grossi barconi». Quindi il potenziale di soccorso di Triton è minimo, i suoi mezzi intervengono nei salvataggi fuori dalla zona di pattugliamento solo se chiamati nelle emergenze.
“NON POTEVA FUNZIONARE”
Gli sbarchi, poi, sono cresciuti dal primo gennaio a oggi del 60 per cento rispetto allo stesso periodo del 2014. Le crisi in Siria e in Libia stanno alimentando i flussi di etiopi, sudanesi, malesi, eritrei, siriani, intercettati sulle coste a est di Tripoli, nella zona di Gharabulli, da gente tipo Abdel Raouf Qara, comandante di un gruppi di fondamentalisti islamici che col business dei barconi porta soldi alla Jihad. Oppure l’etiope Eremias Ghermay, che un’indagine dello Sco ha individuato come uno degli organizzatori del viaggio del peschereccio affondato nell’ottobre 2013 a Lampedusa con quasi 400 morti. «Le nostre unità — spiega l’ammiraglio Giovanni Pettorino, del comando generale della Guardia Costiera — sono adeguate per navigare anche fuori dalla Sar, ma attrezzate per prestare cure mediche durante i trasferimenti a non più di 10-12 persone. Se ci troviamo con centinaia di naufraghi, come nei giorni scorsi, diventa impossibile».
Nemmeno i mezzi dispiegati da Frontex sono equipaggiati per questo. Triton non funziona, perché non poteva funzionare.
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