Blindati e vessilli neri Le avanguardie del Califfo sulle rive del Mediterraneo
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«Stanno crescendo, sono dappertutto». L’ultimo a dirlo è stato tre giorni fa Ali Zeidan, l’ex premier che ha provato il doppio brivido d’essere prima rapito a Tripoli e poi esiliato a Londra: «Se lasciamo la situazione così, entro due mesi l’Isis sarà sulle coste del mar Mediterraneo».
Ci vuole anche meno: la conquista di Sirte è la peggiore delle notizie possibili. In due settimane i miliziani del Califfato, presi il pozzo d’oro nero di Mabruk e il villaggio di An Nawfaliyah, hanno marciato 60 km senza praticamente incontrare resistenza. Si sono impadroniti di radio e tv, spinti verso la Tunisia. Già lanciano volantini alle folle perché prevengano il vizio e ultimatum ai Fratelli musulmani di Alba libica, che governano Tripoli, perché si ritirino senza sparare. Ma è possibile che bastino trentacinque blindati e un centinaio d’armati, per arrivare a uno degli scali petroliferi più importanti del Nord Africa? «Molta gente non sa quanto l’Isis sia infiltrato — dice Aref Ali Nayod, ambasciatore negli Emirati dell’altro governo, quello rifugiato a Tobruk —. Lo Stato Islamico sta trasformando la Libia nel suo bancomat, nel suo distributore di benzina, nell’aeroporto da cui è in grado d’attaccare qualsiasi bersaglio in Europa».
A cominciare dall’Italia. Un semplice Scud e colpiamo Roma, fanno gli sbruffoni su twitter: l’arsenale del vicecaliffo di Derna non ha ancora questa potenza, Ragusa è pur sempre a oltre 400 km ma le minacce non sono solo simboliche. Ad allarmare è stato il sequestro il 6 gennaio del medico siciliano Scaravilli — l’ha ricordato Mattarella il giorno dell’insediamento —, ma soprattutto l’assalto all’hotel Corinthia di Tripoli, lo stesso dove fu preso Ali Zeidan e dove alloggiano gli stranieri: nella capitale esplodono autobombe e Alba libica con le milizie di Misurata, questo il messaggio raccolto dalla Farnesina, non sembra più garantire la sicurezza d’un solo angolo di Tripolitania. Diversa ma non tanto la situazione a Tobruk, l’Est dove governano gli antislamisti, gli ex gheddafiani, i miliziani di Zintan, dove si muove il generale Khalifa Haftar: proprio lì però, poco lontano dal parlamento, riuscì ai tagliagole di Derna il colpaccio di sequestrare il tecnico veneziano Salviato.
Smammare, non basta. Era dai tempi dei Balcani che l’Italia non affrontava una crisi così vicina. Col carico aggiunto, stavolta, dei nostri interessi energetici. E di contratti da centinaia di milioni. E di barconi di migranti che al 90 per cento arrivano proprio dalle coste libiche. Con la differenza che nei Balcani non avevamo minacce dirette — a parte gli scafisti dall’Albania —, eppure in un ventennio hanno finito per occuparsene sette ambasciate, tre missioni militari, una guerra «umanitaria», un’enormità di prefetti, magistrati e consulenti civili, una presenza di supporto che dura ancora.
A Tripoli, non passa mese senza che si sussurri la chiusura della nostra sede diplomatica: sono rimasti solo Giuseppe Buccino, l’ultimo degli ambasciatori occidentali, e una decina di funzionari.
A Tobruk (dove resiste un presidio della Ravanelli, un’azienda friulana di costruzioni) nemmeno quelli. L’Italia ha saputo finora mantenere la giusta distanza fra le due Libie, i due governi e i due parlamenti che si combattono, gli stessi che il mediatore spagnolo Leon e l’Onu non sono riusciti nemmeno a far sedere al tavolo dei negoziati di Ginevra, prima, e nel deserto di Ghadames, ora. La situazione però s’è fatta disperata: l’aeroporto di Tripoli è ormai inagibile, a Bengasi si decapita casa per casa, il fronte di Zintan è irraggiungibile, tutte le milizie puntano al controllo dei pozzi (per finanziarsi poi sul mercato clandestino del petrolio) e della Banca centrale (un forziere da decine di miliardi, con investimenti in Europa), gli sfollati sono 400 mila e i morti accertati, senza contare quelli di Lampedusa, 3.095… Stanno finendo anche le scorte di grano e il prezzo del greggio, che finora aveva evitato una catastrofe anche economica, precipita assieme alle speranze d’evitare la crisi umanitaria.
Se le date significano qualcosa, i libici sanno che martedì saranno quattro anni dalla rivoluzione contro Gheddafi. E che San Valentino, oggi, è la data dei disamorati: tanto temuto quanto amato, sotto sotto anche un po’ irriso, un anno fa esatto il generale Haftar prendeva in mano le forze armate regolari e dichiarava guerra ai fondamentalisti islamici di Ansar al Sharia e ai loro alleati d’Alba libica. Prometteva di riprendersi il Paese, che non sarebbero serviti aiuti esterni.
Un anno dopo, fra i contendenti di Tobruk e di Tripoli, Haftar non ce l’ha ancora fatta. E pochi credono possa tutto da solo.
È spuntato Al Baghdadi, con le sue bandiere nere. Sono sbucati l’Egitto e gli Emirati, coi loro bombardieri su Misurata. I turchi e i qatarini aspettano solo un cenno degl’islamisti. Gli ordini di evacuazione, i ponti aerei somigliano a un’ultima chiamata: fuori i secondi, adesso si mena.
A cominciare dall’Italia. Un semplice Scud e colpiamo Roma, fanno gli sbruffoni su twitter: l’arsenale del vicecaliffo di Derna non ha ancora questa potenza, Ragusa è pur sempre a oltre 400 km ma le minacce non sono solo simboliche. Ad allarmare è stato il sequestro il 6 gennaio del medico siciliano Scaravilli — l’ha ricordato Mattarella il giorno dell’insediamento —, ma soprattutto l’assalto all’hotel Corinthia di Tripoli, lo stesso dove fu preso Ali Zeidan e dove alloggiano gli stranieri: nella capitale esplodono autobombe e Alba libica con le milizie di Misurata, questo il messaggio raccolto dalla Farnesina, non sembra più garantire la sicurezza d’un solo angolo di Tripolitania. Diversa ma non tanto la situazione a Tobruk, l’Est dove governano gli antislamisti, gli ex gheddafiani, i miliziani di Zintan, dove si muove il generale Khalifa Haftar: proprio lì però, poco lontano dal parlamento, riuscì ai tagliagole di Derna il colpaccio di sequestrare il tecnico veneziano Salviato.
Smammare, non basta. Era dai tempi dei Balcani che l’Italia non affrontava una crisi così vicina. Col carico aggiunto, stavolta, dei nostri interessi energetici. E di contratti da centinaia di milioni. E di barconi di migranti che al 90 per cento arrivano proprio dalle coste libiche. Con la differenza che nei Balcani non avevamo minacce dirette — a parte gli scafisti dall’Albania —, eppure in un ventennio hanno finito per occuparsene sette ambasciate, tre missioni militari, una guerra «umanitaria», un’enormità di prefetti, magistrati e consulenti civili, una presenza di supporto che dura ancora.
A Tripoli, non passa mese senza che si sussurri la chiusura della nostra sede diplomatica: sono rimasti solo Giuseppe Buccino, l’ultimo degli ambasciatori occidentali, e una decina di funzionari.
A Tobruk (dove resiste un presidio della Ravanelli, un’azienda friulana di costruzioni) nemmeno quelli. L’Italia ha saputo finora mantenere la giusta distanza fra le due Libie, i due governi e i due parlamenti che si combattono, gli stessi che il mediatore spagnolo Leon e l’Onu non sono riusciti nemmeno a far sedere al tavolo dei negoziati di Ginevra, prima, e nel deserto di Ghadames, ora. La situazione però s’è fatta disperata: l’aeroporto di Tripoli è ormai inagibile, a Bengasi si decapita casa per casa, il fronte di Zintan è irraggiungibile, tutte le milizie puntano al controllo dei pozzi (per finanziarsi poi sul mercato clandestino del petrolio) e della Banca centrale (un forziere da decine di miliardi, con investimenti in Europa), gli sfollati sono 400 mila e i morti accertati, senza contare quelli di Lampedusa, 3.095… Stanno finendo anche le scorte di grano e il prezzo del greggio, che finora aveva evitato una catastrofe anche economica, precipita assieme alle speranze d’evitare la crisi umanitaria.
Se le date significano qualcosa, i libici sanno che martedì saranno quattro anni dalla rivoluzione contro Gheddafi. E che San Valentino, oggi, è la data dei disamorati: tanto temuto quanto amato, sotto sotto anche un po’ irriso, un anno fa esatto il generale Haftar prendeva in mano le forze armate regolari e dichiarava guerra ai fondamentalisti islamici di Ansar al Sharia e ai loro alleati d’Alba libica. Prometteva di riprendersi il Paese, che non sarebbero serviti aiuti esterni.
Un anno dopo, fra i contendenti di Tobruk e di Tripoli, Haftar non ce l’ha ancora fatta. E pochi credono possa tutto da solo.
È spuntato Al Baghdadi, con le sue bandiere nere. Sono sbucati l’Egitto e gli Emirati, coi loro bombardieri su Misurata. I turchi e i qatarini aspettano solo un cenno degl’islamisti. Gli ordini di evacuazione, i ponti aerei somigliano a un’ultima chiamata: fuori i secondi, adesso si mena.
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