Basaglia. Lettere dal manicomio

by redazione | 15 Febbraio 2015 16:42

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VENEZIA. L’APPUNTAMENTO CON SARTRE era alla Closerie des Lilas, una mattina di sole. Mi raccomando non fate tardi, aveva detto Franco Basaglia ai suoi giovani collaboratori, ancora più emozionato di loro. Il padre dell’esistenzialismo era un maestro, forse l’unico che avesse mai considerato tale. Avevano molte cose di cui parlare, com’era già capitato in passato. Il ruolo dell’intellettuale dentro istituzioni oppressive. La dignità delle persone fragili e ingarbugliate. La non neutralità della scienza. E il valore della libertà, la libertà del malato ma anche la libertà del medico. Il filosofo aveva scritto della rivoluzione basagliana nel suo Temps Modernes. Lo psichiatra lo ricambiava mostrando una lettura attenta dei sacri testi, L’essere e il nulla e anche L’idiota della famiglia, la ricerca sulla vita di Flaubert che da ragazzo l’aveva riscattato dal disagio di sentirsi “fuori posto”: anche a Franco era parso a lungo di essere l’idiot de la famille. Chissà se avesse mai osato confessarglielo, anche solo un accenno quel giorno di primavera del 1978. L’anno della legge che portava il suo nome.
La conversazione va avanti spedita fino all’arrivo di Simone de Beauvoir, algida nella sua eleganza perfetta, solo un lieve moto di irritazione che traspariva dall’impeccabile cappellino. «Sartre spinse bruscamente verso di me il suo aperitivo», ricorda oggi la ragazza che accompagnava Basaglia, Maria Grazia Giannichedda. «Con sguardo sorridente Franco mi invitò a prendere in mano il bicchiere. Sartre non poteva bere alcolici e dovevamo salvarlo dall’ira della
compagna». Non si sarebbero più rivisti.
SARTRE E BASAGLIA, FRAMMENTI D’UNA STAGIONE di disordine e furore che affiora dalle carte conservate in archivio, ora inventariate da Leonardo Musci e Fiora Gaspari. Per raccoglierne le tracce bisogna andare nell’isola dei matti, l’ex manicomio che guarda Venezia da San Servolo. Qui è la Fondazione dedicata a Franca e Franco Basaglia, diretta da Giannichedda che ci fa da guida, e qui sono custodite migliaia di documenti tra lettere, taccuini, agende, verbali, atti processuali, studi scientifici che raccontano una rivoluzione culturale, una delle poche che ci siano state in Italia. «L’impossibile che diventò possibile», dice la figlia Alberta Basaglia, che alla sua storia famigliare ha dedicato il bel libro Le nuvole di Picasso. Una storia che non è mai finita, e gli ottanta faldoni dell’archivio servono a ricordarlo.
Si rovesciava il mondo, tra gli anni di Gorizia e quelli di Trieste. Al fianco di Basaglia era la moglie Franca Ongaro, l’unica capace di insegnare agli altri basagliani come fronteggiare una personalità potente rimanendo se stessi. Tutti insieme cominciano a liberare i matti dalle catene, dai corpetti di costrizione, dall’elettroshock, dal mutismo in cui si erano rinchiusi anche per difesa. Nel marzo del 1968 esce da Einaudi il libro che suggella la rivoluzione psichiatrica. L’istituzione negata fu subito bestseller. Sessantamila copie, otto edizioni, traduzioni perfino in finlandese, e il premio Viareggio nella saggistica. Per la prima volta viene data voce agli esclusi. Parla Andrea che racconta della rete intorno al manicomio, di loro buttati a terra perché senza sedie, in ottanta in una sala e poi a letto alle sei del pomeriggio, anche d’estate con il sole ancora alto. E poi Margherita dice che faceva male stare legati come Cristo in croce, dalla mattina alla sera, coi piedi e con le spalle al letto, e se si usciva in giardino si stava legati all’albero. Lo stesso racconta Carla, che si sentiva come la principessa Mafalda chiusa nel lager e non sopportava di restare sporca. «Un enorme letamaio impregnato di un lezzo infernale», aveva detto Basaglia appena varcato il portone del manicomio di Gorizia. L’istituzione negata rappresenta un gigantesco “no”: alla «disumanizzazione» del malato e anche dei medici, a quella dei «violentati» e dei «violentatori». Del suo carattere sovversivo s’accorse subito Giulio Bollati, che il 26 gennaio del 1968, su carta intestata alla casa editrice Einaudi, annota: “Caro Franco, avrei voluto scriverti subito per dirti che il vostro libro è bellissimo e molto importante. Vive delle tensioni che si producono nel suo interno, si sostiene delle sue stesse tendenze autodistruttive”. Troppo sottile Bollati per lasciarsi sfuggire l’inquietudine di un movimento che si nutre di contraddizioni senza approdare a regole definite. “Non mi stupirei che voi dramatis personae ne foste scontenti, irritati, offesi anche più di quello che se non sbaglio già siete: è infatti come se un gruppo di persone si fosse raccolto non per raccontare o fingere la morte di Agamennone, ma per ucciderlo con le proprie mani”.
Moriva non la psichiatria ma un certo modo di intenderla, come insieme di norme e codificazioni. «Tra la malattia e il malato senza dubbio mi interessa più il malato», diceva Basaglia ai suoi interlocutori ormai diffusi nel mondo. Le lettere dell’archivio mostrano una rete vastissima di relazioni, da un maestro della fenomenologia come Eugène Minkowski, sulle cui pagine Basaglia s’era formato, agli esponenti dell’antipsichiatria quali David Cooper e Ronald Laing, che spingevano per il superamento della disciplina. Anche voci più ufficiali manifestavano attenzione per le sue posizioni eterodosse. Ignacio Matte Blanco aveva in mano Che cos’è la psichiatria?, un libro di Basaglia che introduceva parole nuove sul mondo oscuro della follia, quando nell’ottobre del 1967 gli scrive: “Non sono sicuro di essere d’accordo con lei in tutti i punti — il che sarebbe impossibile tra esseri pensanti — ma condivido fortemente l’impostazione generale ed ammiro l’altezza e la larghezza delle sue visioni”. Gli animatori dell’antipsichiatria vorrebbero condurlo dalla loro parte, ma Basaglia resiste. Vuole cambiare la psichiatria, non cancellarla, allargando i suoi confini ad altri campi, in una più vasta riflessione politico- culturale sulle istituzioni. Lo spiega bene in una lettera a Giulio Einaudi, che lo incalza con la richiesta di altri libri. “Nell’ultimo viaggio a Londra ho parlato con Laing, che suggeriva di organizzare un trattato di antipsichiatria di cui avrei dovuto curare la parte italiana. La cosa però a mio avviso è assurda: fare un trattato di antipsichiatria non ha senso in questo momento”. A Basaglia interessa di più trasformare la psichiatria in “un’occasione di incontro-discorso politico antistituzionale” che offra una possibilità di azione. Un progetto poi realizzato con Crimini di pace, volume collettaneo scritto insieme a Noam Chomsky e Michel Foucault, Vladimir Dedijer e il suo amico Sartre: al centro è la figura dell’intellettuale-tecnico che vuole liberarsi dal ruolo di “funzionario del consenso” cui lo costringe l’istituzione. Per Basaglia una riflessione autobiografica.
Anno di successi ma anche di tormento, il Sessantotto. A Gorizia il lavoro si fa sempre più duro, tra moltissime resistenze. “Caro Max, ci sono un sacco di difficoltà, non ultima il fatto che voglio andarmene da Gorizia”, scrive a Maxwell Jones, l’inventore britannico delle “comunità terapeutiche” dove il disagio psichico viene curato con la collaborazione reciproca di medici e pazienti. “Sono in crisi anche per quel che riguarda il significato più profondo del mio lavoro: vivendo all’interno di una struttura sociale sento sempre di più che il mio lavoro è funzionale all’attuale sistema politico ed economico rispetto al quale sono in disaccordo, e devo trovare qualcosa di diverso, altrimenti non vedrò alcun significato in quel che faccio”. Sarà un incidente ad allontanarlo da Gorizia. Nel settembre del 1968, un paziente ricoverato da tanti anni esce in permesso, litiga con la moglie e la uccide a colpi di scure. Per Basaglia, che pure sarebbe stato assolto, è un momento di «grandissima angoscia». Si dimette dalla direzione dell’Ospedale psichiatrico. L’anno successivo va a insegnare a New York.
Per realizzare il suo progetto — chiudere il manicomio e dare vita a un nuovo sistema di servizi di salute mentale — deve aspettare l’incarico a Trieste, sul finire del 1971. È la stagione più intensamente vissuta, in una esplosione di immaginazione e utopia. Sono gli anni di Marco Cavallo, il grande cavallo azzurro di cartapesta che nella pancia custodisce i desideri di chi l’ha costruito, «pazzi» e «sani», teatranti e pittori. Può capitare che, nel teatro del manicomio, all’armonica di un’anziana paziente risponda il sassofono di Ornette Coleman. E dall’aeroporto di Trieste decolla l’aereo dei matti, a bordo del DC9 solo pazienti, medici e personale volontario dell’Ati. Ma nel giugno del 1972 arriva l’altro fattaccio. Giordano Savarin, dimesso in esperimento dall’Ospedale psichiatrico, uccide il padre e la madre. Anche in questo caso per Basaglia la sentenza sarebbe stata di assoluzione, ma il processo si chiude tra molte ombre. Ancora una volta l’amico Sartre interviene pubblicamente in suo sostegno. Lui lo ringrazia con una lettera molto amara. “La cosa si è conclusa molto ambiguamente”, gli scrive Basaglia il 25 novembre del 1975. Era stato infatti condannato il medico del centro di igiene mentale cui spettava il controllo. “La responsabilità viene trasferita ai centri di igiene mentale, come un prolungamento poliziesco del controllo che l’ospedale psichiatrico non può più attuare”. Una vittoria e una sconfitta, “perché la sentenza lascia immutato il problema della prevedibilità o impre- vedibilità della pericolosità del malato di mente”. Una questione che dopo quarant’anni è ancora irrisolta, con lo scandalo dei manicomi giudiziari tuttora in vita.
È anche per questo che la famiglia Basaglia ha deciso di rendere pubblico l’archivio dell’isola di San Servolo. «Il discorso sui matti e sui più deboli resta attuale», commenta Alberta, che continua la tradizione famigliare con la sua attività di psicologa. «È una storia che va avanti e non dobbiamo fermarci». Sartre diceva che ci sono morti che vivono, e sono loro il nostro avvenire, il compito futuro. «Questo si può dire anche di Franco e Franca Basaglia e dell’impresa da completare che ci hanno lasciato », conclude l’antica collaboratrice Giannichedda. Morti che ci parlano da un tavolino assolato di Parigi, contenti di stare insieme, anche se per l’ultima volta.
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