Il governo di Angela Merkel lo sa bene e, incalzato da destra, molto se ne preoccupa. Insomma, anche nella più nera delle crisi c’è sempre qualcuno “too big to fail”, troppo grosso per fallire. Se la Grecia si trovi effettivamente in una simile condizione è materia assai controversa, ma certo è che la ragione economica propenderebbe, sempre e comunque, per il negoziato, per recuperare almeno il recuperabile. Quando si decide di mandare qualcuno in bancarotta è sostanzialmente per ragioni politiche o “morali”, mai “contabili”. Si accetta un sacrificio per salvaguardare la regola. Si mette in conto una perdita per conservare un potere. Se ne colpisce uno, insomma, “per educarne cento”. Il rapporto tra creditori e debitori è assai più politico che non contrattuale.C’è un rischio che tutti i creditori del mondo conoscono: se mandi qualcuno in fallimento i tuoi crediti diventano carta straccia. E se il credito è stato concesso da uno stato, sia pure con altri della Ue, i suoi contribuenti potranno chieder conto della perdita subita.
La linea dura contro Atene è dettata infatti dal timore, tutto politico, di un “effetto domino”, cioè della possibile emulazione da parte di altri paesi dell’eurozona, in particolare quelli dell’area mediterranea, della ribellione greca contro la tirannia del debito. Ma, d’altro canto, effetti domino potrebbe comportarne anche lo strangolamento della Grecia o la sua esclusione dall’Eurozona, in termini di turbolenza sui mercati finanziari e di di tenuta stessa del processo europeo nel suo insieme. I falchi che volteggiano tra Berlino e Bruxelles non hanno affatto le carte europeiste in regola e quando la rendita finanziaria e i poteri delle élites sentono allentarsi la presa sulle politiche europee la fede nell’Unione e nel progredire dell’integrazione vacilla paurosamente.
Il primo schema che converrà dunque destrutturare è quello che vede contrapposti un fronte nordico “indubbiamente” europeista a un’Europa mediterranea “indubbiamente” votata al populismo euroscettico non appena i suoi governi accennino a discostarsi di un passo dal catechismo ordoliberista di Bruxelles. Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, per esser chiari, è assai meno europeista di Alexis Tsipras. Tuttavia l’entusiasmo manifestato da pressoché tutta la destra euroscettica per la vittoria di Syriza in Grecia, interpretata in chiave “sovranista”, costituisce una insidia da non sottovalutare, destinata a inquinare pericolosamente il probabile braccio di ferro tra il governo di Tsipras e l’attuale governance europea.
Marine Le Pen plaude allo “schiaffo di Atene”, Nigel Farage gongola per la vittoria di “quelli che sono stati impoveriti dall’euro”, Cameron si compiace di aver messo i cittadini britannici al riparo dai sussulti dell’Unione, la nostra Lega si complimenta con il presunto corso antieuropeo affermatosi in Grecia, e perfino Bernd Lucke, presidente di Alternative fuer Deurschland, il partito più nazionalista e antieuropeo dello scacchiere polico tedesco, dichiara: «il debito greco deve essere tagliato; in questo Syriza ha perfettamente ragione». Dopodiché il paese dovrebbe abbandonare l’euro.
La destra nazionalista sembra voler cavalcare con decisione il successo elettorale del partito di Tsipras, servendosene per approfondire le contraddizioni interne all’Unione e frenare i processi di integrazione europea. Saranno queste forze le prime a trarre vantaggio da una totale chiusura di Bruxelles nei confronti delle richieste greche. Servendosene come argomento per dimostrare che nessuna Europa è possibile, se non quella della Troika.
In questo quadro l’alleanza di governo con la destra nazionalista di Anel, cui Tsipras è stato costretto per aver mancato di un soffio la maggioranza assoluta, rischia di mandare un segnale pericoloso. Non tanto nella sostanza, data l’enorme sproporzione di peso tra le due forze politiche, ma sul piano dell’immagine. Molti hanno interesse, tanto sul versante antieuropeo quanto su quello del rigore, a confondere la novità del laboratorio greco con il populismo euroscettico che cresce nel resto d’Europa. Per non parlare delle sue ramificazioni “rosso-brune” che combinano nazionalismo e disagio sociale. E’ vero che sempre, e ripetutamente nel corso della sua campagna elettorale, Tsipras ha insistito sullo spirito europeista del suo progetto, ma ora, da capo di governo e di una alleanza sulla quale molti, a sinistra, storcono il naso, sarebbe altrettanto urgente quanto metter mano al disastro sociale, un forte gesto di segno europeista.
Vinta la battagli elettorale interna, è nella dimensione europea che bisogna rilanciare e non solo nei termini di una vertenza con Bruxelles.
In contrasto con l’espansione del nazionalismo europeo, sta prendendo forma un altro corso politico: quello che sospinge Podemos in Spagna verso una crescita e una affermazione che potrebbe raggiungere dimensioni simili a quelle conseguite da Syriza in Grecia. A Barcellona e a Madrid risiede dunque, sia pure a partire da una storia e da caratteristiche del tutto diverse, il naturale proseguimento del processo avviato ad Atene. Entro questa prospettiva europea, movimenti e forze politiche possono mobilitarsi per impedire che la Grecia venga isolata e accerchiata. In questo caso l’alleanza con i “Greci indipendenti” resterebbe , una parentesi, una fastidiosa necessità contingente. Altrimenti, tra gli applausi delle destre antieuropee, rischierà di essere il primo passo di un arroccamento ininfluente sul destino futuro della democrazia europea.