Ne è testimonianza l’intervento a gamba tesa di Jean Claude Juncker, il secondo dall’inizio della campagna elettorale. «Il governo che uscirà dalle urne greche dovrà rispettare gli impegni presi da Atene e proseguire nelle riforme e nella responsabilità finanziaria», ha detto il Presidente della Commissione Europea. Non da meno è stata Christine Lagarde: «Un debito è un debito ed è un contratto», ha detto la numero del Fondo Monetario Internazionale in un’intervista all’Irish Times.
Nella migliore delle ipotesi, ci troviamo di fronte alla troika che ha governato di fatto la Grecia negli ultimi anni che scende in campo per fermare il «pericolo rosso» e ribadire che le politiche di austerità possono conoscere qualche minimo aggiustamento ma non vanno messe in discussione.
Nella più innocua delle valutazioni, si mette in evidenza come Juncker e il premier greco uscente Antonis Samaras appartengano alla stessa famiglia politica europea, quella dei popolari conservatori, ed è comprensibile che il primo possa andare in soccorso al secondo in difficoltà. Non rendendosi conto, tra l’altro, di fornire un’arma micidiale proprio ad Alexis Tsipras, che vede crescere i consensi a ogni esternazione del contestato ex primo ministro lussemburghese.
Nella peggiore delle interpretazioni, invece, le parole di due massimi esponenti della troika su tre (solo Mario Draghi si è finora saggiamente astenuto dall’intervenire), apparentemente felpate ma nella sostanza con pochi margini di manovra lasciati all’interlocutore, possono essere letti come un avvertimento a Tsipras. Sembrano dirgli che ad Atene non verranno fatti sconti di alcun tipo e il nuovo governo verrà sopportato solo a patto che accetti di essere eterodiretto. In buona sostanza, abbandoni ogni velleità di cambiare politiche nel suo Paese, men che meno di provare a costruire un’alternativa politica sul livello continentale. In cambio avrà garantito quel prestito-trappola che alla fine di febbraio rischia di far saltare i conti della malandata penisola ellenica.
Cosa accadrà se non dovesse andare come auspicano i sostenitori dell’austerità nessuno lo dice. Atene finirà fuori dall’euro o cos’altro? In Grecia ricordano benissimo quel che avvenne quando Georgios Papandreou decise di chiedere al popolo cosa ne pensava del piano di ristrutturazione lacrime e sangue imposto dall’Europa: l’allora premier socialista fu costretto a ritirare la proposta di referendum e la democrazia se ne andò a farsi benedire. Forse è troppo ipotizzare che da lunedì a Bruxelles e al Fmi si possa pensare di non tener conto della volontà della maggioranza dei greci. Eppure è proprio quello che Juncker e Lagarde sembrano volerci dire.