Il super farmaco anti epatite C in India costerà solo un dollaro

by redazione | 21 Gennaio 2015 11:59

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Costerà agli indiani un dollaro a pillola invece dei 1.000 che l’azienda produttrice, l’americana Gilead, fa pagare in alcuni Paesi occidentali: parliamo del sofosbuvir, il nuovo farmaco contro l’epatite C.
L’ufficio brevetti di Delhi ha appena respinto la richiesta di registrazione del medicinale, presentata dall’azienda, perché non lo ritiene sufficientemente innovativo e potrà produrlo come generico (senza pagare royalties ). È un’interessante trovata per ovviare ai costi esorbitanti delle nuove terapie, insopportabili per molti sistemi sanitari e soprattutto per il Sub-continente dove l’infezione da virus dell’epatite C è diffusissima (chiamano «Killead», da kill , uccidere, la Gilead perché ostacola, con la sua politica, l’accesso ai farmaci).
La guerra dei prezzi è aperta, in tutto il mondo. Negli Usa due grandi assicurazioni private hanno stretto accordi con due produttori dei nuovi medicinali, ottenendo una riduzione dei costi e diventando, di fatto, «prescrittori», al posto dei medici. In Italia il sofosbuvir ha appena avuto il via libera, l’Aifa (l’agenzia italiana del farmaco) ha negoziato sconti sulle terapie che, per accordi con l’azienda, non sono stati resi pubblici (negli Usa il prezzo di un ciclo di terapia è di 84 mila dollari, da noi si parla di cifre attorno ai 40 mila euro) e il governo ha stanziato un miliardo di euro per queste terapie. In Italia, dunque, il prezzo per pillola sarebbe poco inferiore ai mille dollari, attorno agli 800 euro.
Si potranno così curare, in due anni, 50 mila persone, ma i candidati alla terapia sarebbero all’incirca un milione e mezzo. Se si trattassero tutti, il sistema sanitario potrebbe andare in bancarotta. E allora si sono scelte alcune categorie di malati da curare: quelli con la patologia più grave. «Secondo logica — dice Antonio Craxì, epatologo a Palermo — sarebbe meglio privilegiare pazienti con malattia meno avanzata perché possono essere guariti e uscire dal circuito dell’assistenza». Aggiunge Carlo Federico Perno, virologo di Roma: «In un sistema a risorse limitate varrebbe la pena di chiederci se non spendiamo troppo per curare chi ha prospettive di guarigione basse e investiamo troppo poco per cure, come quella per l’epatite C, che hanno percentuali di successo di oltre il 95%».
I pazienti italiani, al momento, sono in attesa: sono le Regioni che devono decidere come spendere i soldi. E c’è un po’ di confusione. Intanto l’Ema (l’agenzia europea del farmaco) ha registrato due nuove molecole che hanno il vantaggio di essere somministrabili per bocca e non richiedere il concomitante uso di interferone (un farmaco che ha effetti collaterali importanti). È una buona notizia per due motivi: si stanno perfezionando le terapie e l’arrivo di nuovi farmaci sul mercato farà abbassare i prezzi. Ma c’è un altro modo per risparmiare: mettere a punto terapie sempre più efficaci per pazienti difficili (con trapianto, con cirrosi, con infezioni da virus dell’Aids), e ridurre i tempi di trattamento, come ribadito all’ultimo congresso dell’Associazione americana per lo studio delle malattie di fegato.
«È all’orizzonte una terapia “breve” — commenta Savino Bruno, epatologo di Milano — che prevede l’associazione di tre molecole in un’unica pillola da somministrare per bocca una volta al giorno. Che funziona contro i sei tipi diversi del virus C dell’epatite (quelli che abbiamo ora a disposizione sono efficaci solo su alcuni tipi, ndr )». La storia delle cure per l’epatite C assomiglia a quella per l’Aids. Là siamo riusciti a rendere cronica la malattia, qui possiamo guarire.
Adriana Bazzi
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