Chi ha buona memoria ricorderà che, in Italia, a gettare benzina sul fuoco ci pensò l’allora ministro per le Riforme, Roberto Calderoli, che si presentò in tv con una t-shirt che riproduceva le vignette, generando un’esplosione di rabbia e alcuni morti a Bengasi, nella Libia ancora gheddafiana. Le vignette incriminate furono poi acquisite dalla Biblioteca reale danese e finirono in un Museo dei fumetti. Ma nel frattempo, l’11 febbraio del 2008, i servizi segreti bloccarono ad Aarhus quattro presunti jihadisti, sospettati di preparare un attentato a uno dei vignettisti, il settantatreenne Kurt Westergaard, che aveva ritratto Maometto con una bomba nel turbante.
Anche il Charlie Hebdo divenne un target: alla fine del 2011 la redazione fu completamente distrutta da un incendio doloso e il sito del giornale finì vittima di un attacco hacker dopo un numero speciale denominato «Sharia Hebdo». Per un periodo i giornalisti furono ospitati dal quotidiano Libération. Che il giornale fosse ad altissimo rischio era cosa risaputa da anni, dunque, al punto che davanti alla redazione di regola stazionavano un paio di agenti di polizia, un po’ com’era accaduto al manifesto dopo la bomba neofascista del 2000. Ma le misure di sicurezza non sono bastate.
Se si volesse andare invece alla ricerca di qualche segnale più vicino nel tempo, non si può non partire da quanto accaduto alla vigilia delle ultime elezioni europee a Bruxelles, quando un uomo armato di kalashnikov era entrato nel Museo ebraico e ucciso quattro persone, tra i quali due visitatori israeliani. Una decina di giorni dopo l’autore della strage fu arrestato a Marsiglia, ma non è mai stato chiarito se avesse agito da solo e chi fossero i mandanti. Quel che è interessante è però la ricostruzione del profilo dell’attentatore. Mehdi Nemmouche, un ventinovenne di origini tunisine ma con passaporto francese, veniva da Roubaix, la città più povera e con il più alto tasso di disoccupazione della Francia. Era stato arrestato cinque volte e condannato sette, sempre per reati comuni. Non propriamente il curriculum di un estremista islamico, piuttosto quello di un giovane che vive di espedienti in una realtà difficile. Ma Nemmouche, uscito dal carcere, alla fine del 2012 aveva fatto perdere ogni traccia di sé e con ogni probabilità era finito in Siria. Al ritorno, era un altro uomo, addestrato a colpire in Europa. Il giorno dell’arresto gli fu sequestrato un kalashnikov avvolto in un telo nero con lo stemma dello Stato islamico in Iraq e nel Levante. È quest’ultima dinamica che, forse, riesce a spiegare più di tutte come i reclutatori dell’islamismo più intransigente riescono a trarre linfa dal malcontento delle periferie francesi.
È nella banlieue parigina di Clichy-sous-Bois che, nel 2006, la morte di due minorenni, fulminati in una cabina elettrica nella quale avevano cercato riparo per sfuggire alla polizia, aveva provocato una rivolta che aveva mostrato come la Francia fosse già un gigante malato, dai gravi problemi sociali. Che il Paese fosse nel mirino degli estremisti islamici (legati alla galassia di Al Qaeda o al recente Isis) era chiaro dopo le minacce per l’intervento armato in Mali, lo scorso anno, e dopo la decapitazione, un mese fa in Algeria, di un turista, Hervé Gourdel.
Meno pregnanti e forse solo significativi di un clima di scontro nel quale anche il gesto di un folle può risultare politicizzato, invece, paiono le azioni disperate come quella di un lupo solitario di 44 anni che lo scorso Natale ha accelerato con il suo furgone fino a schiantarsi contro un chioschetto che vendeva vin brulé in un mercatino natalizio, travolgendo undici persone e uccidendone una, o dello squilibrato che a Digione ha investito tredici passanti con la sua auto. Testimonianze di una Francia sull’orlo di una crisi di nervi, dove l’estrema destra di Marine Le Pen cavalca la marea anti-islamista che monta in tutta Europa e si candida a governare un Paese in guerra con se stesso.