Non mancano anche altre facilitazioni, in quella decisione del novembre scorso presa con tanta discrezione per non irritare il pubblico tedesco. Fino al 2020 la Grecia non dovrà versare un solo centesimo ai Paesi del club dell’euro, quelli che hanno tenuto il Paese a galla con i loro fondi da quando nel 2009 è emerso che i suoi conti pubblici erano un colossale inganno. Quanto ai tassi d’interesse, quelli sui 53 miliardi di prestiti concessi ad Atene da ciascun governo del club sono stato ridotti a un livello pari al tasso interbancario a tre mesi più 50 punti: in sostanza, ad oggi, la Grecia paga lo 0,53% annuo. I tassi sul fondo salva-Stati (Efsf), il grosso del pacchetto finanziario offerto ad Atene, attualmente sono di appena lo 0,21%. I pagamenti all’Efsf da parte della Grecia dovranno iniziare solo nel 2023 e finire appunto fra 42 anni. Le fasi più impegnative arriveranno nel 2032, dal 2034 al 2039 e soprattutto nel 2054. Prima, a partire da subito e fino alla fine di questo decennio, Atene dovrà saldare solo i propri debiti verso il Fondo monetario internazionale. Se dunque il neo-premier Alexis Tsipras intende ottenere una sforbiciata sugli oneri che il suo governo è chiamato a sostenere, dovrà chiederla ai rappresentanti di Cina, Stati Uniti, Brasile, India, Sudafrica, Cile o Vietnam nell’organismo di Washington.
È anche chiaro chi sarebbe l’uomo teoricamente chiamato a presentare l’eventuale richiesta al consiglio del Fmi: Carlo Cottarelli, ex zar della spending review a Roma, ora direttore della circoscrizione del Fmi che comprende Grecia e Italia e, in anni passati, corresponsabile del piano di prestiti ad Atene in quanto capo del dipartimento fiscale del Fondo monetario quando quel pacchetto venne deliberato. Nasce così uno degli equivoci più surreali nella tragedia sociale e politica che da anni si consuma dentro e intorno alla Grecia. Ha appena vinto le elezioni un partito cresciuto nei consensi grazie alla richiesta di una revisione del debito verso le nazioni creditrici. Ma a nessuno degli elettori è mai stato spiegato che quella revisione c’era stata due mesi prima del voto. Non lo ha detto la cancelliera Angela Merkel, per non confessare ai contribuenti tedeschi l’ovvia verità che i loro soldi non torneranno a casa molto presto. Non lo hanno ricordato Matteo Renzi da Roma o François Hollande da Parigi, presi senz’altro da altre priorità. Non lo ha fatto neppure Antonis Samaras, il premier greco uscente, perché voleva competere con Tsipras sulla base di una piattaforma molto simile a quella del suo giovane avversario: la richiesta di un taglio al debito. Spiegare che c’era appena stata una revisione su oltre quattro decenni avrebbe complicato e confuso il messaggio.
La vicenda tra debitori e creditori riparte dunque da qui. Quella spalmatura delle scadenze con cancellazione dei pagamenti di questo decennio fa sì che la Germania, al solito, ora sia riluttante a fare di più. In realtà sarebbe possibile: per esempio una riduzione di 0,5% dei tassi sui prestiti bilaterali nei decenni futuri porterebbe un sollievo enorme. Ma come spesso nel gioco degli specchi fra Atene, Bruxelles e Berlino, il fuoco del negoziato non è dove tutti guardano. È altrove, nelle politiche di bilancio dei prossimi mesi. Se il governo Tsipras accetterà di restare nei programmi della troika, enormi pagamenti dall’Europa lo aspettano fra due mesi: riceverebbe 15 miliardi dall’ultima tranche del piano di assistenza, dai profitti della Bce sui titoli di Stato greci che ha comprato e dalla gestione dei salvataggi delle banche. In contropartita però Bruxelles e Berlino chiedono a Tsipras di impegnarsi a una riduzione del deficit da quasi il 2% del Pil, rinunciando alle promesse di spesa che gli hanno fatto vincere le elezioni. Queste ultime valgono il 7% del Pil, come se l’Italia lanciasse un’espansione di bilancio da 120 miliardi o la Germania da 250 miliardi senza spiegare dove trovano le risorse.
Se Tsipras si piegherà alle pressioni tedesche, rischia di perdere qualunque credibilità di fronte ai greci. Se rifiuta, il suo governo può collassare per mancanza di fondi fra pochi mesi ed essere costretto all’opzione nucleare: l’uscita dall’euro. Un accordo arriverà solo all’ultimo, probabilmente fra cinque o sei mesi. Sempre che a forza di nascondere la verità ai loro elettori, i governi europei non finiscano per perderne completamente il controllo.