Il prigioniero vivo mostra il morto l’ultima variazione dell’orrore un macabro gioco su due amici

by redazione | 25 Gennaio 2015 10:21

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KIRKUK. LA VARIAZIONE sul tema dell’orrore del sedicente Califfato consiste questa volta nel macabro gioco su due uomini amici. Erano comparsi, alla sinistra e alla destra del boia, in tenuta arancione, nel video che chiedeva 200 milioni di dollari (una cifra fatta per non trattare, anche per un paese più cedevole del Giappone) e fissava un ultimatum. Ieri sono ricomparsi, uno vivo e uno morto: lo studiato colpo di scena sta nel vivo che mostra alla telecamera la foto del morto, con la testa mozzata posata sul tronco. I due, compagni di quell’angosciosa prigionia per mesi, erano da tempo amici, e, a rendere ancora più odioso il montaggio, sta l’eventualità che l’uno, Kenji Goto, 47 anni, fosse andato in Siria alla ricerca dell’altro, Haruna Yukawa, 42.
Il “freelance” Goto è in realtà un giornalista di grande esperienza, animato anche da un proposito umano nei confronti dei bambini travolti dalle guerre. Yukawa, il decollato, è descritto come un uomo già oppresso da lutti e fallimenti, e attratto dal miraggio di una nuova vita grazie al mestiere delle armi.
Nel nuovo video l’Is, se l’autenticità sarà confermata, fa chiedere da Goto non più il denaro, ma la liberazione di una donna irachena, aspirante assassina suicida in un albergo di Amman nel 2005: la sua cintura non esplose, quella del suo uomo sì e fece decine di morti. Sajida al-Rishawi, questo il suo nome, è stata condannata a morte in primo grado.
La notizia mi è arrivata a Kirkuk, mentre il mio ospite mi raccontava di aver vissuto sempre in una qualche guerra feroce, e che tuttavia mai aveva immaginato le cose che Daesh — il nome arabo che vuol dire, spregiativamente, “Stato Islamico” — si compiace di perpetrare e di ostentare a Mosul o a Raqqa: la penultima, i giovani scaraventati a morte giù da un palazzo perché colpevoli di omosessualità. Gli appelli come quello della madre di Goto, diceva, spezzano il cuore degli esseri umani, ma divertono quei delinquenti, che lucrano sul rincaro del raccapriccio. Voi ripetete troppo, ha concluso, che lo sdegno e la decisione di affrontarli è «proprio quello che vogliono»: è vero che lo vogliono, perché sono fanaticamente pazzi, e la guerra è la loro intima religione. Ma non può essere una ragione per non affrontarli, o affrontarli con mille reticenze, egoismi, cinismi. Il governo giapponese sostiene una linea intransigente, e ha una larga opinione pubblica diffidente e ostile a quelle che vede come superflue avventure giornalistiche e umanitarie. In realtà anche il Giappone ha trovato il modo di salvare vite di suoi sequestrati in passato. In un caso, nel 2004, non ci riuscì: il ventiquattrenne escursionista Shosei Koda fu sequestrato in Iraq dai seguaci di al-Zarqawi, che esigevano il ritiro immediato delle truppe giapponesi dal paese. Fu girato un video: Koda in ginocchio su una bandiera americana, le mani legate dietro la schiena, poi lentamente decapitato, infine la testa mozzata deposta sul tronco. Dieci anni fa: quante cose erano già successe e non le avevamo viste abbastanza. Compreso quell’intervento giapponese, sul quale ieri si citava a sproposito l’art.9 della Costituzione, che mette al bando la guerra e la stessa formazione di forze armate fuori dall’“autodifesa”, e che ha già avuto aggiustamenti pratici (e formali, nel 2014) ingenti. È probabile che la nuova truculenza dell’Is rafforzi ancora la posizione dei correttori di quel vincolo costituzionale, avversati soprattutto da Cina e Corea del Sud, oltre che dalle forze pacifiste giapponesi.
Un altro nome si è evocato da qualcuno ieri, quello di “kamikaze”, per dire che sono i giapponesi ad averlo inaugurato: del tutto a sproposito, perché fra i cosiddetti (non in Giappone) “kamikaze” della seconda guerra e gli attentatori suicidi jihadisti non c’è alcun rapporto: altro cielo, altra terra.
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