Il presidente che sussurrava alla crisi

by redazione | 15 Gennaio 2015 9:22

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Per un bilan­cio storico-critico dei nove anni di pre­si­denza Napo­li­tano occorre appu­rare quanto, nel suo modo di inter­pre­tare il ruolo, ci sia di occa­sio­nale e quanto invece segni un muta­mento per­ma­nente nella col­lo­ca­zione del Qui­ri­nale negli equi­li­bri dina­mici del sistema costi­tu­zio­nale. La cate­go­ria del pre­si­den­zia­li­smo di fatto, uti­liz­zata di solito per descri­vere una avve­nuta sovrae­spo­si­zione del Colle nelle vicende isti­tu­zio­nali più deli­cate, non è ade­guata per cogliere la reale por­tata, e dun­que le con­se­guenze di più lungo periodo, dell’interventismo qui­ri­na­li­zio, che è parso sicu­ra­mente accen­tuato in taluni momenti.

Mal­grado una cre­scita visi­bile dell’influenza, e talora anche della respon­sa­bi­lità pre­si­den­ziale diretta in opzioni di più stretta marca poli­tica, la repub­blica non si è tra­sfor­mata in una variante incom­pleta di regime pre­si­den­ziale. Cioè, dopo Napo­li­tano, il pro­blema sul tap­peto non è certo quello di por­tare final­mente a com­pi­mento for­male quel muta­mento qua­li­ta­tivo delle attri­bu­zioni del capo dello stato avve­nuto già sul piano della con­sue­tu­dine, con l’espropriazione defi­ni­tiva di com­pe­tenze un tempo parlamentari.

L’eccezionale cumulo di poteri di con­di­zio­na­mento avu­tosi nella per­sona di Napo­li­tano (di cui la rie­le­zione, sia pure a tempo e non sol­le­ci­tata, è una con­ferma) resta all’interno di un par­la­men­ta­ri­smo che, nelle giun­ture cri­ti­che del mec­ca­ni­smo poli­tico incep­pato, trova pro­prio nell’attivismo di altri poteri costi­tu­zio­nali (la Con­sulta o il Qui­ri­nale) una val­vola di sfogo, non priva di ele­menti di fri­zione e di ela­stica indeterminazione.

Il regime par­la­men­tare al bivio

La que­stione cru­ciale è quindi di accer­tare se, dopo il sur­ri­scal­da­mento ele­vato delle fun­zioni e delle pre­ro­ga­tive del Colle, que­sti poteri d’eccezione, riat­ti­vati in rispo­sta alla con­cla­mata situa­zione di emer­genza e gestiti secondo moda­lità suscet­ti­bili di discorde valu­ta­zione, tor­ne­ranno ad essere dor­mienti (come è già acca­duto con Scal­faro, dopo il varo della “tri­nità isti­tu­zio­nale” impe­gnata nel governo dell’eccezione e la gesta­zione di governi del pre­si­dente) o invece deter­mi­ne­ranno una sla­vina che con­durrà alla fuo­riu­scita dagli ingra­naggi pecu­liari della forma di un regime parlamentare.

Ogni pre­si­dente, get­tato in con­di­zioni cri­ti­che, come sono quelle della seconda lunga crisi dei vent’anni, che ha deter­mi­nato due crolli del sistema dei par­titi in tempi rav­vi­ci­nati e subìto l’irruzione di un potente vin­colo esterno euro­peo che ha limato l’autonomia poli­tica di una demo­cra­zia sovrana, con­duce una sua poli­tica isti­tu­zio­nale. Ed è pro­prio que­sta poli­tica delle isti­tu­zioni, cali­brata per gover­nare una fase di forte fol­lia siste­mica, che occorre ana­liz­zare, alla luce di un cri­te­rio prin­cipe che carat­te­rizza la poli­tica: l’efficacia. La domanda quindi è: Napo­li­tano, con la sua poli­tica delle isti­tu­zioni, ha arre­stato le dina­mi­che dege­ne­ra­tive che inve­sti­vano la repub­blica o ha con­tri­buito anch’egli con la sua con­dotta, che aveva delle pos­si­bili opzioni alter­na­tive, ad appro­fon­dire la crisi?

L’efficacia nella crisi

È den­tro i tempi storico-politici che ha dovuto gestire che va inqua­drato il com­por­ta­mento del capo dello stato. E quelli toc­cati a Napo­li­tano non sono stati anni banali. Come ogni pre­si­dente della seconda repub­blica, è stato eletto da una mag­gio­ranza di sini­stra. Per for­tuna, almeno per il Qui­ri­nale, l’alternanza non si è veri­fi­cata. E al Colle sono saliti per­so­na­lità nel com­plesso fedeli all’impianto par­la­men­tare della Repubblica.

Ad ognuno di loro è toc­cato di con­vi­vere con la sco­moda pre­senza di Ber­lu­sconi a Palazzo Chigi. Come è capi­tato per ogni inqui­lino del Qui­ri­nale, anche a Napo­li­tano sono pio­vute addosso le cri­ti­che per non aver rifiu­tato la firma a leggi discu­ti­bili varate dalla destra.

Ma qui, a parte Scal­faro che ha inter­pre­tato sino in fondo il ruolo di un espli­cito con­tro­po­tere, il Colle non può in maniera strut­tu­rale sur­ro­gare le fun­zioni dell’opposizione.

Per i decreti che pos­sono essere cor­retti o non con­ver­titi nel nor­male iter isti­tu­zio­nale o inva­li­dati in un’opera di con­trollo di lega­lità che si estende sino alle supreme magi­stra­ture dello Stato, la vigi­lanza pre­ven­tiva del Qui­ri­nale può essere a maglie più lar­ghe. Quando però un atto nor­ma­tivo ha effetti distor­sivi imme­diati, e la sua costi­tu­zio­na­lità è assai dub­bia (è il caso della legge elet­to­rale Cal­de­roli non cen­su­rata da Ciampi e poi irri­tual­mente demo­lita dalla Con­sulta), il capo dello Stato deve rifiu­tare la firma per­ché l’abuso di mag­gio­ranza non è facil­mente rime­dia­bile con nor­mali procedure.

Il crollo del bipolarismo

La prima fase della lunga espe­rienza di Napo­li­tano ha dovuto veder­sela con la fra­gi­lità del mag­gio­ri­ta­rio di coa­li­zione. Dap­prima il cen­tro sini­stra che, con la esplo­siva diar­chia Prodi-Veltroni creata a colpi di pri­ma­rie, non ha tenuto in aula e poi la disin­te­gra­zione della coa­li­zione di cen­tro destra hanno sve­lato l’inconsistenza degli assi por­tanti del nuovo sistema poli­tico. Il teo­rema della coa­li­zione mas­sima vin­cente con­sen­tiva di aggiu­di­carsi il pre­mio in seggi ma non di sor­reg­gere un coe­rente indi­rizzo poli­tico di mag­gio­ranza. La neces­sa­ria opera di media­zione, entro alleanze mul­ti­formi, urtava con­tro i sim­boli della per­so­na­liz­za­zione del comando (nome del pre­mier stam­pato sulla scheda elet­to­rale) e ogni blocco di potere sal­tava in aria dinanzi all’affiorare di ine­vi­ta­bili spinte centrifughe.

Al crollo del bipo­la­ri­smo mec­ca­nico ha forse con­tri­buito una certa sin­to­nia isti­tu­zio­nale sta­bi­li­tasi tra il Qui­ri­nale e Mon­te­ci­to­rio che ha indotto Fini ad assu­mere i tratti di una destra in cerca di un cor­redo libe­rale e quindi costretta alla rot­tura netta con il popu­li­smo ber­lu­sco­niano. Ma il ritardo con cui la mozione di sfi­du­cia è stata votata in aula nel 2010, ha favo­rito delle ope­ra­zioni di tra­sfor­mi­smo che hanno pro­lun­gato arti­fi­cial­mente la vita di un governo poli­ti­ca­mente morto. Quello che non ha pro­dotto per via poli­tica, la espli­cita cen­sura par­la­men­tare del governo Ber­lu­sconi, il sistema lo ha dovuto com­piere per il soprag­giun­gere di un com­plesso di inter­venti esterni e per adem­piere a degli inviti inter­na­zio­nali dive­nuti pres­santi a ridosso dell’emergenza della crisi finan­zia­ria. Abile nella depo­si­zione del Cava­liere che ha accet­tato la defe­ne­stra­zione senza andare in escan­de­scenza, la stra­te­gia del Qui­ri­nale ha mostrato una dub­bia effi­ca­cia nel governo della tran­si­zione aper­tasi nel novem­bre del 2011.

Sta­bi­lità, la regia delle lar­ghe intese

Due erano gli imperativi-cardine delle poli­ti­che isti­tu­zio­nali con­fe­zio­nate dal Colle: la sta­bi­lità di governo, come valore asso­luto in tempi di crisi, e l’emergenza eco­no­mica e isti­tu­zio­nale da affron­tare con lo spi­rito delle lar­ghe intese e secondo gli impe­ra­tivi del risa­na­mento e delle con­nesse riforme strut­tu­rali. È indub­bio che nelle fasi più gravi dell’emergenza finan­zia­ria, pro­prio Napo­li­tano sia diven­tato un inter­lo­cu­tore fon­da­men­tale che, con cre­di­bi­lità e pre­sti­gio, ha par­lato con le più influenti can­cel­le­rie (non solo) euro­pee. Però la solu­zione di una guida tec­nica dell’esecutivo pro­spet­tata dal Colle (e accet­tata dagli attori poli­tici, che quindi ne assu­mono la respon­sa­bi­lità piena) dopo la caduta del ber­lu­sco­ni­smo non si è rive­lata un fat­tore effi­cace nel con­te­ni­mento della cata­strofe in atto.

L’operazione Monti non era una rie­di­zione del governo Dini, per­ché men­tre quest’ultimo era pur sem­pre un pro­dotto dell’attivismo dei par­titi che ave­vano pro­get­tato “il ribal­tone”, e rima­ne­vano pronti a san­cire con il voto una alter­na­tiva di governo, il dica­stero Monti nasceva come un espli­cito allon­ta­na­mento della poli­tica dalle stanze del potere e come l’espropriazione di un ruolo del ricam­bio poli­tico nella fase dell’emergenza.

Per que­sto l’esperimento Monti, pro­trat­tosi così a lungo anche per la mio­pia del Pd che non per­ce­piva l’usura celere della for­mula e la rab­bia sociale che mon­tava, ha com­presso le spinte al rin­no­va­mento, sof­fo­cato domande di inno­va­zione e ope­rato come l’agente pato­geno che ha deter­mi­nato un ulte­riore aggra­va­mento del males­sere sfo­ciato nella ribel­lione dal basso con­tro il sistema al motto di “tutti a casa”. La paren­tesi tec­nica ha piaz­zato i bot e i titoli di stato ma ha spiaz­zato il sistema poli­tico indu­cen­dolo al col­lasso. Bloc­cate le vie di una alter­na­tiva den­tro il sistema, le ener­gie com­presse non pote­vano che assu­mere i con­torni della ribel­lione esterna con­tro il sistema.

Monti apre la strada a Grillo

Grillo non ci sarebbe mai stato senza Monti, con la sua strana mag­gio­ranza e la sua ino­pi­nata discesa in campo. Dalla crisi del ber­lu­sco­ni­smo, non si è usciti con lo stru­men­ta­rio dell’alternanza ma con la crisi di regime, la seconda nel giro di un ven­ten­nio. Non solo l’interprete (Monti e le sue meschine ambi­zioni di potere) ma pro­prio il rime­dio, quello tec­nico appunto, era sba­gliato come illu­so­rio neutralizzazione.

Non inco­sti­tu­zio­nale ma inef­fi­cace, alla luce del soprag­giunto crollo del sistema, è risul­tata la poli­tica isti­tu­zio­nale del Colle. Anche dopo il voto del 2013, e a caduta di sistema poli­tico ormai con­su­mata, la rilut­tanza a con­fe­rire un man­dato pieno al “non vin­ci­tore” Ber­sani ha accen­tuato i momenti di incer­tezza e di crisi. Ciò ha favo­rito l’ascesa dell’altro ele­mento di destrut­tu­ra­zione cieca, che è il ren­zi­smo (il Qui­ri­nale pro­tegge lo sta­ti­sta di Rignano, arri­vando per­sino a stig­ma­tiz­zare ogni ipo­tesi scis­sio­ni­stica nel Pd).

In fondo, quel governo di mino­ranza, che solo in aula avrebbe dovuto tro­vare i con­sensi, e che è stato negato a Ber­sani come una for­mula insulsa, costi­tui­sce il pila­stro su cui pog­gia il deci­sio­ni­smo simu­lato di Renzi. Il suo è pro­prio un mono­co­lore di fatto, che raci­mola spez­zoni par­la­men­tari ete­ro­ge­nei dopo che il gover­nis­simo era durato solo per le poche set­ti­mane che divi­de­vano il Cava­liere dalla con­danna defi­ni­tiva in cas­sa­zione. Il pro­blema è che una mag­gio­ranza Bersani-Vendola era per­ce­pita come la resur­re­zione di una sini­stra tra­di­zio­nale, ten­den­zial­mente ostile agli impe­ra­tivi domi­nanti nella vec­chia Europa, men­tre Renzi, mal­grado le prove di popu­li­smo e anti­po­li­tica, è pur sem­pre una fedele sen­ti­nella del rigore, dei con­doni fiscali e della pre­ca­rietà del lavoro. Pro­prio sui temi del lavoro, dopo una ini­ziale insi­stenza sui nuovi diritti civili e sul fine vita, sul regime car­ce­ra­rio e sugli infor­tuni nelle fab­bri­che, il capo dello Stato ha con­di­viso la reto­rica con­tro il con­ser­va­to­ri­smo della Cgil, con l’invito rivolto al movi­mento sin­da­cale a non distur­bare le pre­ro­ga­tive della mag­gio­ranza intenta nel varo delle cosid­dette riforme strutturali.

Se la repub­blica avrà, a breve o a medio rag­gio, una svolta in senso pre­si­den­zia­li­sta, non sarà però per­ché Napo­li­tano si è tra­mu­tato in “re Gior­gio”, e quindi dopo di lui occorre sol­tanto rati­fi­care gli spo­sta­menti avve­nuti nella prassi. La car­rozza del com­mis­sa­rio avan­zerà per­ché le grandi cul­ture costi­tu­zio­nali della repub­blica sono state tra­volte dal virus della sem­pli­fi­ca­zione che sug­ge­ri­sce l’illusoria solu­zione della ele­zione diretta della carica mono­cra­tica impo­sta attra­verso una ano­mala legge elettorale.

Le riforme isti­tu­zio­nali ad ogni costo, e l’Italicum impo­sto con i suoi ritoc­chi solo cosme­tici alla vec­chia legge Cal­de­roli, sono dei fasulli rimedi dati in pasto (con le norme sul o meglio con­tro il lavoro) ai cen­sori europei.

Su que­sto rifor­mi­smo improv­vi­sato dell’asse Boschi-Verdini, con­tro cui si sono accesi momenti di ostru­zio­ni­smo in aula, un minore coin­vol­gi­mento del Qui­ri­nale, a difesa della velo­cità delle mosse del governo, forse sarebbe stato più oppor­tuno, quale che sia il livello di pre­oc­cu­pa­zione sulla tenuta del sistema e sulla pre­senza o meno di valide alter­na­tive al con­dot­tiero di Rignano.

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