ORA che è successo, sembra logico. Chi segue da anni la crisi dell’euro ricorda le radici di questa vicenda. A metà agosto del 2011 la Banca centrale europea stava intervenendo in modo sempre più incerto e inutile per sostenere le quotazioni del debito della Spagna e dell’Italia. Il governo di Silvio Berlusconi in poche settimane stava smentendo tutti gli impegni presi in cambio di quell’aiuto. Da tutta l’Europa del Sud in quei giorni di agosto decine di miliardi di euro stavano affluendo in Svizzera nel timore che un’asta dei titoli di debito del Tesoro di Roma sarebbe andata deserta. Fosse successo, il governo italiano avrebbe rischiato di finire senza liquidità, obbligato a stampare moneta propria per pagare gli stipendi o le pensioni alla fine del mese. Poteva essere la fine dell’euro. Molto risparmio, non solo italiano, affluiva nelle banche in Ticino, a Zurigo o a Ginevra alla ricerca di un porto sicuro. Bersagliato dagli acquisti dall’estero, il franco svizzero si stava rivalutando rapidamente, mettendo in difficoltà l’industria esportatrice elvetica: farmaceutica, orologi di lusso, turismo.
La banca centrale di Berna reagì: dichiarò che non avrebbe tollerato un tasso di oltre 1,20 euro per un franco, quando nelle settimane precedenti il cambio era arrivato a 1,04. La Banca nazionale svizzera annunciò l’impegno formale a intervenire: avrebbe stampato franchi potenzialmente senza limiti e li avrebbe venduti in cambio di valuta estera per difendere quella soglia di 1,20 e impedire un apprezzamento all’eccesso. Lo ha detto, e lo ha fatto. Dopo più di tre anni di interventi continui, l’istituto di emissione di Berna ha accumulato riserve in euro e dollari pari a circa 500 miliardi di franchi (più di 600 miliardi di euro), una somma pari all’80% del prodotto lordo della Confederazione. L’equivalente finanziario di Stalingrado: una battaglia interminabile e combattuta senza risparmio di munizioni. Negli ultimi tempi i banchieri centrali svizzeri stavano intervenendo al ritmo di 30 miliardi di franchi (quasi 40 miliardi di euro) al mese. Se parametrata alla taglia del Paese, una delle più vaste operazioni di creazione monetaria della storia.
Non è bastato. Almeno due elementi hanno fatto saltare l’equazione dei banchieri svizzeri ed entrambi contengono una lezione per l’Europa, l’Italia e la Bce. Il primo fattore è senz’altro la Russia. La guerra in Ucraina, le sanzioni, la sfiducia strisciante dei russi verso il sistema di Vladimir Putin hanno portato i loro frutti. Gli oligarchi di Mosca stanno votando con il loro denaro, portandolo per decine di miliardi nei caveau elvetici: fuori dalla portata di Putin e dalla sua cerchia di siloviki, gli ex funzionari del Kgb fattisi governo. La pressione al rialzo sul franco continua a crescere anche per questo e il suo messaggio è che comunque progredisca la vicenda russa, non potrà che impattare a fondo sul tessuto dell’Europa occidentale. Ma la seconda lezione suona ancora più vicina. La mossa di Berna di ieri — l’abbandono del cambio fisso, la resa sugli interventi — precede di pochi giorni l’avvio di un piano della Bce per creare nuove liquidità e comprare almeno 500 miliardi di titoli di Stato. Quella marea di euro avrebbe reso la resistenza svizzera alla rivalutazione sempre più difficile. I mercati ieri vi hanno letto una buona notizia, perché muovendosi la Svizzera segnala che la svolta dell’Eurotower è vicina e forse sarà più radicale del previsto. Gli investitori però non si sono chiesti quanti dei fondi che continuano ad affluire in Svizzera in queste settimane vengano dalla Grecia, da risparmiatori incerti sul loro futuro prossimo a pochi giorni dalle elezioni. E non hanno pensato a chi ha vinto, in questa Stalingrado: hanno vinto loro. Viviamo nell’epoca dei banchieri centrali onnipotenti, campioni della moneta creata senza limiti con un clic. Ma se la Svizzera ieri ha gettato la spugna, è perché i mercati hanno dimostrato di essere ancora più forti. Specie se le Banche centrali sopravvalutano il proprio potere: la campana suona a Berna, ma è udibile fino a Francoforte.