La bozza è suddivisa in quattro sezioni. La prima conferma che i soldi che i governi eventualmente decideranno di versare al nuovo Fondo strategico per gli investimenti, cuore del pacchetto da 315 miliardi varato da Juncker per rilanciare l’eurozona, non saranno conteggiati nel calcolo del deficit dei singoli paesi. In bilico invece la possibilità di scorporare dal deficit non solo i soldi versati nel Fondo, ma anche quelli usati per partecipare direttamente ai progetti di una singola nazione legati al piano Juncker. Ma il meglio arriva nella seconda sezione del documento, che dopo anni di richieste italiane, Renzi ne ha fatto una vera battaglia, permette di scomputare dal conteggio del disavanzo strutturale anche i soldi nazionali (cofinanziamento) che i governi devono stanziare per accedere ai fondi strutturali o ai denari comunitari per il finanziamento delle reti di comunicazione (Connecting Europe). Dunque potranno essere sfilati dal deficit i cosiddetti investimenti pubblici produttivi (quelli che generano crescita) a condizioni ben più abbordabili rispetto a quelle che in passato erano tanto rigide da rendere la clausola praticamente inservibile. Se resta fermo che un governo può chiedere di sfilare gli investimenti virtuosi solo se resta sotto il tetto del 3% del deficit, potendo però utilizzare lo spazio di spesa fino a quella soglia senza incappare nelle varie procedure di infrazione, leggi commissariamento e sanzioni, previsti dal Fiscal Compact anche per chi non sfora il parametro di Maastricht, la novità è che se prima per accedere alla clausola era necessario che tutta la zona euro fosse in grave recessione, ora basterà che lo sia solo il paese che desidera investire (si negozia sulla definizione di recessione “grave”).
Fondamentale per Roma è anche il terzo capitolo della bozza, quello dedicato alle riforme strutturali secondo il quale chi ammoderna davvero il Paese, e per deciderlo servirà ogni volta una verifica ad hoc di Bruxelles, potrà evitare di risanare il deficit strutturale dello 0,5% all’anno (per Roma si tratta di 8-10 miliardi). Una deroga importante, che i falchi avevano provato ad azzoppare inserendo una velenosa postilla – al momento saltata dalla bozza – secondo cui chi accede alla clausola delle riforme viene automaticamente messo sotto procedura per squilibri macroeconomici, uno strumento di cui l’Europa si è dotato di recente per mettere sotto tutela, e imporre un vero e proprio programma di politica economica, anche i paesi che non sforano il 3%. Infine il capitolo quarto, secondo il quale in determinati casi indicati da rigidissime formule matematiche, un Paese che non ha ancora azzerato il deficit può procedere con una correzione dello 0,25% all’anno, e non dello 0,5. Se il documento – che sarà subito operativo senza dover incassare il via libera di governi ed Europarlamento – verrà approvato dalla Commissione così come scritto al momento, darà una svolta all’Unione e l’Italia potrebbe sorridere. Già, perché Juncker a novembre ha rinviato a marzo il giudizio sui conti di Roma (che non rispetta vari parametri pur restando sotto il 3% del defcit) e con le regole attuali una procedura sarebbe quasi scontata.