Il governo Renzi l’aveva presentata al Consiglio d’Europa, nel giugno scorso, come una delle misure «strutturali» risolutive del problema del sovraffollamento carcerario per il quale l’Italia era stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani. Sanzioni evitate perché il Comitato dei ministri europei, oltre ad apprezzare i «significativi risultati» già ottenuti, aveva accolto «positivamente l’impegno delle autorità italiane», dimostrate attraverso «le varie misure strutturali adottate per conformarsi alle sentenze» di Strasburgo. Ma l’esecutivo ha fatto scadere la delega ricevuta dal Parlamento che lo obbligava a riformare entro il 17 gennaio 2015 il nostro sistema penale introducendo l’arresto e la detenzione domiciliare come pena principale, ossia da comminare anche nella forma preventiva, e potenzialmente applicabile ai reati punibili fino a cinque anni di reclusione.
Un fatto ritenuto da gran parte del mondo giudiziario italiano di estrema gravità. Tanto più perché, come spiega l’avvocato Valerio Spigarelli, ex presidente dell’Unione delle camere penali italiane, «si evidenzia il carattere politico della scelta, che contraddice peraltro tutte le aperture fatte su questo tema negli ultimi tempi. E a pensar male — aggiunge Spigarelli — evidentemente i boatos del leghista Matteo Salvini contro questo tipo di impostazione fanno breccia anche nel governo Renzi».
A questo punto, governo e parlamento dovranno trovare una soluzione alternativa, perché l’anno di tempo che il Consiglio d’Europa ha dato all’Italia per verificare che le misure risolutive promesse siano state davvero applicate scade nel giugno prossimo.
E pensare che alla legge delega 67, approvata dal Parlamento il 28 aprile 2014 ed entrata in vigore il successivo 17 maggio, che dava all’esecutivo un tempo limitato per «adottare uno o più decreti legislativi per la riforma del sistema delle pene», si arrivò dopo un lungo lavoro della Commissione ministeriale composta di magistrati, giuristi e avvocati, presieduta dal professor Francesco Palazzo, istituita nel giugno 2013 dall’allora ministro di Giustizia, Anna Maria Cancellieri, e confermata successivamente anche da Orlando. La legge delega, che ricalcò lo «schema di principi e criteri direttivi» consegnati da quella Commissione nel febbraio 2014, conteneva due diktat per il governo in materia di giustizia: la non punibilità delle condotte di lieve entità e una serie di pene alternative tra le quali, oltre alla messa alla prova, c’erano — molto importanti per l’impatto che avrebbero avuto sui problemi strutturali del sovraffollamento carcerario — l’introduzione dell’arresto e della detenzione domiciliare come pene principali, da applicare obbligatoriamente per i reati punibili con pene edittali fino a tre anni e a discrezione dei giudici per quelli fino a cinque anni.
Ma il governo Renzi, che per queste norme aveva un tempo limite massimo imposto dalla legge delega di otto mesi, scaduti appunto il 17 gennaio scorso, si è limitato invece a varare, nel consiglio dei ministri dell’1 dicembre scorso, solo il decreto legislativo che incide sulle condotte di «particolare tenuità» e per il quale i termini si allungavano fino a 18 mesi con scadenza prevista a novembre prossimo.
Ma se quelle norme fossero state introdotte, la custodia cautelare domiciliare si sarebbe potuta applicare ad una platea di circa 14 mila detenuti, portando in questo modo la popolazione carceraria addirittura al di sotto della capienza massima, secondo i calcoli riportati ieri da Radio Radicale che ha citato fonti ministeriali. D’altronde è ormai assodato che un provvedimento di decarcerizzazione efficace non può non partire da quel circa 40% di detenuti in custodia cautelare che costituiscono il triste record italiano tra i Paesi europei (la media Ue si ferma al 25%).