Oltreoceano torna la paura del contagio così l’euro-crisi può frenare la ripresa Usa

by redazione | 7 Gennaio 2015 11:12

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NEW YORK . Euro – contagio: sarà questa la sindrome del 2015? È il timore che ora dilaga anche su questo versante dell’Atlantico. Fa cadere Wall Street, in profondo rosso dall’inizio dell’anno. Provoca fughe precipitose verso beni-rifugio come i buoni decennali del Tesoro americani, giapponesi o tedeschi, che per eccesso di domanda rendono sempre meno. Sembra il remake di un brutto film già visto due volte: nella primavera del 2010, e nell’estate del 2011. Ora, siamo arrivati alla terza ondata di panico che ha il suo epicentro in Europa.
Ieri gli indici di Borsa americana hanno continuato ad accumulare perdite. Le cause più citate dietro questa improvvisa ventata di pessimismo: il petrolio e la Grecia. Due temi legati da un filo comune, che si chiama deflazione.
Non un’assenza d’inflazione, ma molto peggio: prezzi che retrocedono, dunque impoveriscono coloro che da quei prezzi traggono redditi; e impoveriscono tutti i debitori (Stati inclusi) che devono onorare delle cambiali sempre più pesanti in termini reali.
Il petrolio si avvita in un tracollo disordinato. Meno 55% da giugno, è una velocità di caduta anomala. E’ evidente che nessuno riesce a controllarla. Non esistono più “mani forti” dietro questo mercato, l’Opec è un’ombra del cartello oligopolistico che fu.
Non giova il fatto che il re saudita Abdullah, novantenne, è stato ricoverato in ospedale per una polmonite e potrebbe essere in fin di vita. Dopo un lungo silenzio, ieri ha fatto leggere un comunicato in cui promette di reagire al tracollo del petrolio “con ferma determinazione”. Per adesso l’unica conseguenza concreta, è che l’Arabia saudita ha regalato nuovi sconti generosi ai suoi clienti europei, incattivendo la concorrenza al ribasso e gettando nella costernazione altri petro-Stati dalla Russia all’Iran al Venezuela. Negli Stati Uniti si stanno chiudendo molti pozzi petroliferi non più competitivi a questi livelli dei prezzi. Obama può permettersi di minacciare il veto presidenziale contro il maxioleodotto XL Keystone (progettato dal Canada al Golfo del Messico e inviso agli ambientalisti) perché comunque di petrolio ce n’è troppo ovunque, a prezzi da saldi fallimentari.
In un mondo normale e sereno, un controshock petrolifero farebbe vincitori e perdenti, con l’Occidente nettamente in vantaggio. Perderebbero i petrolieri (Stati produttori e multinazionali del settore), guadagnerebbero i consumatori e tanti altri settori industriali per i quali l’energia è un costo. Ma il 2015 non si apre sullo scenario di un mondo normale e sereno. Il contro-shock petrolifero spaventa i mercati finanziari non solo e non tanto perché vanno giù i titoli di Exxon e Shell, o magari rischiano il default la Russia o il Venezuela. In cima alle paure, c’è l’euro-deflazione. Il tracollo del petrolio viene visto al tempo stesso come un effetto della mancata crescita in Europa e in Asia, nonché come un aggravante di questo male oscuro, la depressione endemica del Vecchio continente. Una differenza c’è rispetto alle due precedenti crisi di panico venute dall’eurozona. A differenza dalla primavera 2010 e dall’estate 2011, l’Amministrazione Obama, i mass media Usa e gli analisti di Wall Street non considerano più la disintegrazione dell’euro come un evento possibile nel breve o medio termine. Le elezioni in Grecia, l’eventuale vittoria della lista Tsipras, la possibilità di un’aspra ri-negoziazione sui debiti di Atene, infine perfino lo scenario di un’uscita della Grecia dall’euro, tutto questo viene analizzato come un dettaglio minore. Ma al tempo stesso come il sintomo di un male più vasto. L’America si è ormai convinta — a differenza dal 2010 e 2011 — che lo scenario “Grexit” e cioè l’uscita della Grecia dall’euro sia poco probabile ma soprattutto poco rilevante. Fa molta più paura la paralisi dei grandi paesi europei, l’incapacità a reagire alla terza ricaduta nella recessione. L’attenzione di Wall Street si concentra non tanto su Atene quanto su Francoforte: i ripetuti annunci di Mario Draghi, su un prossimo quantitative easing della Bce, suscitano scetticismo crescente. Wall Street si è convinta che Draghi, quand’anche riesca a superare le resistenze politiche del suo azionista tedesco, e gli ostacoli giuridici della Corte europea, al massimo riuscirà a lanciare un programma di acquisti di bond pari a 500 miliardi di euro. La Federal Reserve con il suo quantitative easing vincente, di bond ne comprò per 4.500 miliardi di dollari. La sproporzione è sconfortante. Visti dall’America, i mezzi che la Bce potrebbe dispiegare, anche nella migliore delle ipotesi, sono bel al di qua della gravità del male che affligge l’eurozona.
L’unico spiraglio positivo è la svalutazione dell’euro, caduto a quota 1,19 sul dollaro dopo essere stato a lungo sopra 1,50. L’euro debole rende più competitive le esportazioni italiane, francesi, spagnole o tedesche. Ma i prezzi più vantaggiosi in euro non bastano: per una ripresa trainata dall’export ci vuole una domanda vigorosa nel resto del mondo. E qui l’euro-contagio rischia di vanificare anche i vantaggi della svalutazione competitiva. L’unico mercato che tira finora è quello americano. Tutti gli altri rallentano, compresi tanti paesi emergenti che affondano assieme al petrolio. Il consumatore americano fino a ieri era decisamente ottimista. Perfino la popolarità di Obama ha cominciato a risollevarsi, grazie al +5% del Pil e al boom di assunzioni. Il contro-shock petrolifero aggiunge altro potere d’acquisto alle famiglie americane. E il New York Times le invita a partire in vacanza a Parigi, col superdollaro in tasca. Ma le cadute a ripetizione di Wall Street seminano un dubbio: che il 2015 sia non più l’anno salvato dalla locomotiva Usa, bensì l’anno guastato dal relitto europeo alla deriva.
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