Tra i tanti, c’è un nuovo elemento che si aggiunge alle perplessità di chi non crede che il procuratore si sia tolto la vita: secondo quanto ha rivelato uno dei dirigenti della comunità ebraica argentina, Jorge Kirszenbaum, nell’appartamento è stata trovata una nota con cui Nisman dava indicazioni alla domestica per la spesa che avrebbe dovuto fare nella giornata di lunedì. Nulla, anche a sentire i giornalisti e i colleghi che sono stati in contatto con lui nelle ultime ore prima della morte, fa pensare che il magistrato fosse depresso. È vero però che Nisman aveva compiuto una scelta estremamente rischiosa ed era cosciente delle conseguenze che avrebbe potuto comportare, anche per lo sviluppo della propria carriera: la decisione di sfidare in modo frontale la presidente Cristina Fernández de Kirchner, accusata di favoreggiamento nei confronti del regime iraniano (in cambio di petrolio) sospettato di essere il responsabile diretto della strage del 1994 nella sede dell’associazione ebraica Amia, in cui morirono 85 persone, aveva cominciato a provocargli problemi anche all’interno della magistratura.
Nisman — professore universitario di diritto penale e processuale, specializzato in narcotraffico, terrorismo internazionale, riciclaggio, frode e traffico d’armi — era arrivato alla fama, può sembrare curioso, proprio per una decisione del marito di Cristina, Néstor Kirchner, che nel 2004, durante il suo mandato presidenziale, lo incaricò del gravoso compito di resuscitare l’indagine sul più grave attentato terroristico della storia argentina, impantanato da un decennio. L’attuale “presidenta” all’epoca era la “primera dama”, ma anche una politica attiva che, come lei stessa ha ricordato ieri in un lungo articolo su questa vicenda, aveva fatto parte della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Amia. Ora Cristina, in un evidente sforzo di autodifesa, denuncia oscuri tentativi di «deviare, mentire, occultare, confondere». Non si riferisce in modo diretto al procuratore scomparso, ma lascia in qualche modo intendere che potrebbe essere stato vittima di una operazione di depistaggio.
E del resto è lo stesso svolgersi tortuoso dell’inchiesta su quel massacro di vent’anni fa a suscitare enormi perplessità. Perché l’inchiesta di Nisman, mai arrivata a conclusioni definitive, si è mossa tra due filoni contrapposti. Prima che prendesse corpo la pista iraniana, per la quale il procuratore chiese nel 2006 l’incriminazione di diversi alti dirigenti del regime degli ayatollah, compreso l’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, si era affacciata anche una dubbia “pista siriana”. Che alla fine è stata scartata, però non senza strascichi: per un tentativo di insabbiamento delle indagini, lo stesso Nisman ha infatti chiesto il rinvio a giudizio dell’ex presidente Carlos Menem e di alcuni dei suoi più stretti collaboratori.