Napo­li­tano, il bilancio è una speranza. La stessa

by redazione | 2 Gennaio 2015 9:51

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Delle due con­di­zioni che aveva indi­cato all’inizio del secondo man­dato — «resterò pre­si­dente fino a quando la situa­zione del paese e delle isti­tu­zioni me lo farà rite­nere neces­sa­rio e fino a quando le forze me lo con­sen­ti­ranno». — se n’è dun­que veri­fi­cata almeno una. Gior­gio Napo­li­tano lascia, e nel farlo insi­ste sul peso degli anni. Un dato di fatto: «Ho il dovere di non sot­to­va­lu­tare i segni dell’affaticamento». Ma si è anche creata quella con­di­zione di «sicu­rezza» del paese che il pre­si­dente cer­cava? Aveva preso l’incarico di orien­tare, e per un tratto ha diret­ta­mente gui­dato, una fati­cosa tran­si­zione; se ne vede l’approdo? Que­sto nean­che Napo­li­tano rie­sce a dirlo. Nell’ultimo mes­sag­gio di capo­danno cerca di indi­care una spe­ranza — ma l’ha sem­pre fatto e sem­pre è andata delusa. Il vec­chio pre­si­dente fa un pic­colo elenco di suc­cessi, tutti par­ziali, incerti e discu­ti­bili. La scom­messa del dop­pio man­dato «ecce­zio­nale» non è vinta. Lascia e non siamo lon­tani dal punto in cui aveva raddoppiato.

Il lascito è già un trauma. Napo­li­tano ne è con­sa­pe­vole e insi­ste che le dimis­sioni sono pre­vi­ste dalla Costi­tu­zione, che sarà un bene tor­nare alla nor­ma­lità di un unico man­dato com­pleto al Qui­ri­nale, e — c’è l’eco delle discus­sioni con Renzi e delle pre­oc­cu­pa­zioni di palazzo Chigi — che le dimis­sioni non devono con­di­zio­nare la vita del governo e del par­la­mento (ma anche che le esi­genze degli altri organi costi­tu­zio­nali non pos­sono impe­dire una scelta «per­so­nale» del pre­si­dente). Eppure Napo­li­tano sa bene che andando via lan­cia Renzi di fronte all’ostacolo più alto. Il par­la­mento è lo stesso che due anni fa mandò a vuoto cin­que scru­tini per il pre­si­dente, una situa­zione niente affatto ine­dita ma che si è voluta dram­ma­tiz­zare — anche da Napo­li­tano che ha visto il bara­tro, il «vuoto».
Il capo dello stato ha fatto un ultimo regalo al gio­vane pre­mier, del quale approva espli­ci­ta­mente ogni scelta poli­tica. Aspet­terà almeno altre due set­ti­mane prima di far avere le sue dimis­sioni alla pre­si­dente della camera; lo avesse fatto già a capo­danno la con­vo­ca­zione delle camere in seduta comune con i dele­gati regio­nali avrebbe sbar­rato troppo pre­sto la strada par­la­men­tare delle «riforme». Che invece così (almeno quella elet­to­rale) pos­sono fare un altro passo, che non è ancora quello defi­ni­tivo. Il pre­si­dente le approva entrambe, anche la revi­sione costi­tu­zio­nale scritta dal governo e fatta ingo­iare al par­la­mento con costante minac­cia di voto anti­ci­pato. Non è la riforma che aveva applau­dito ai tempi di Letta, né quella che aveva inco­rag­giato quando si pre­oc­cu­pava di met­tere al cen­tro sem­pre la sepa­ra­zione dei poteri. Ma è qual­cosa per riem­pire il bilan­cio del noven­nato.
La scelta del suo suc­ces­sore «sarà una prova di matu­rità e respon­sa­bi­lità nell’interesse del paese», dice agli ita­liani il capo dello stato uscente. Ed è appena un auspi­cio. I gio­chi sono tutti da farsi e lo stesso Napo­li­tano qual­che pedina muove, quando dice che le sue «rifles­sioni» sul paese hanno «per desti­na­ta­rio anche chi pre­sto mi suc­ce­derà»: l’identikit che ha in mente non è quello di un uomo (o di una donna, visto ne cita tre su quat­tro «ita­liani esem­plari») desti­nato a vivere nell’ombra del capo del governo.

Come nel mes­sag­gio dell’anno scorso, il pre­si­dente deve tor­nare a difen­dere la scelta di aver accet­tato un secondo man­dato. «È risul­tata — dice — un pas­sag­gio deter­mi­nante per dare un governo all’Italia, ren­dere pos­si­bile l’avvio della nuova legi­sla­tura e favo­rire un con­fronto più costrut­tivo tra oppo­sti schie­ra­menti». «L’aver tenuto in piedi la legi­sla­tura è stato di per sé un risul­tato impor­tante (…) si è evi­tato di con­fer­mare quell’immagine di un’Italia insta­bile che tanto ci pena­lizza». Eppure: il governo delle «lar­ghe intese», costruito al Qui­ri­nale a fine aprile 2013, ha retto nove mesi appena. Le lar­ghe intese anche meno. A palazzo Chigi c’è il terzo pre­si­dente del Con­si­glio con­se­cu­ti­va­mente scelto dal Colle senza man­dato elet­to­rale. Anche que­sta è sta­bi­lità.
Un appello all’altruismo e alla respon­sa­bi­lità chiude l’ultimo mes­sag­gio di Napo­li­tano, il pre­si­dente indica nell’impegno pub­blico l’antidoto all’antipolitica che da tempo lo pre­oc­cupa. E che pro­prio le lar­ghe intese, il rigore «tec­nico» e le ele­zioni negate hanno alimentato.

Sulla crisi eco­no­mica il bilan­cio di una scon­fitta: «Tutti gli inter­venti pub­blici messi in atto dall’Italia negli ultimi anni sten­tano a pro­durre effetti deci­sivi». Scon­fitta per chi tutte quelle misure di auste­rità ha appro­vato e spinto ad appro­vare, fino a chie­dere alle mino­ranze e ai sin­da­cati di non met­tersi di tra­verso. Quanto al fati­dico seme­stre di pre­si­denza ita­liana in Europa, «l’Italia ha colto l’opportunità per sol­le­ci­tare un cam­bia­mento nelle poli­ti­che», dice Napo­li­tano. C’è stato que­sto cam­bia­mento? Nem­meno lui può affer­marlo, lo fac­ciano altri: «Renzi tirerà le somme dell’azione cri­tica e pro­po­si­tiva svolta a Bru­xel­les». E ancora le riforme. Non c’è più un’ombra di quello spi­rito di «con­di­vi­sione» che pro­prio il capo dello stato ha sem­pre rac­co­man­dato. Il rap­porto con una parte della non mag­gio­ranza passa per un patto segreto che ha assai poco dello «spi­rito costi­tu­zio­nale». Eppure devono andare avanti «senza bat­tute d’arresto» insi­ste Napo­li­tano. Che ha ormai supe­rato anche il dop­pio bina­rio che teo­riz­zava con Monti e Letta — al governo l’economia, al par­la­mento le riforme. Fac­cia tutto Renzi.
Infine le parole dure con­tro la cor­ru­zione, a tutti pia­ciute. Eppure anche in que­ste c’è la trac­cia di un equi­voco, quando Napo­li­tano riprende il gergo dell’inchiesta romana sui rap­porti «tra mondo di sotto e mondo di sopra». «Sì — dice — dob­biamo boni­fi­care il sot­to­suolo mar­cio e cor­ro­sivo della nostra società». E invece no, pre­si­dente. Quello mar­cio era il soprassuolo.

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