by redazione | 14 Gennaio 2015 16:10
È stata bella la manifestazione di domenica a Parigi. Confesso che la prima, appena avvenuto l’eccidio nella redazione di Charlie Hebdo, mi aveva lasciata un po’ perplessa: comprensibile, e positivo, il bisogno di ritrovarsi per rispondere collettivamente al tremendo omicidio.
E però mi era parsa una riaffermazione orgogliosa della superiore civiltà della Francia, senza che affiorasse almeno qualche interrogativo sul perché di tanto odio verso il nostro Occidente, sulle ragioni che hanno a tal punto indebolito l’egemonia del nostro modello di democrazia nel mondo.
Troppo facile dire che si è trattato di un manipolo di esaltati e criminali – quali certamente gli assassini di Parigi sono – senza tener in conto che essi non nascono per caso e dal nulla, ma sono il frutto di una crisi che sta destabilizzando sanguinosamente una larga parte del continente africano ed asiatico, con sinistra eco anche nelle nostre stesse città europee.
Il grandissimo corteo di domenica, la partecipazione commossa e convinta di francesi e però fra loro diversissimi per razza e religione, così come quella — sia pure retorica e falsamente unanimista, ma non per questo simbolicamente meno importante – di tanti capi di stato, ha avuto un segno diverso. Perché è stato – così almeno mi è sembrato – l’espressione di un bisogno autentico di ritrovarsi in un comune sentire, di aspirare ad un universale sistema di valori.
E tuttavia interrogarsi ancora è necessario. Non sul terrorismo in sé, che è aberrante e senza giustificazioni, ma su un problema più generale che ci deve preoccupare al di là dei gesti disperati come quello di cui è stato vittima Charlie Hebdo. Parlo dell’«universale sistema di valori»: siamo davvero sicuri che l’identificazione in quello che noi occidentali definiamo universalismo coinvolga tutta l’umanità, o non dobbiamo prendere atto che i valori della Rivoluzione Francese sono stati troppo logorati dalla storia reale per poter raccogliere un’adesione unanime? Colonialismo, guerra, diseguaglianze, esclusioni pesano e non potrebbe essere che così.
Non per questo, naturalmente, si tratta di rinunciare all’ipotesi di costruire un «comune» reale, rifugiandosi in un pigro relativismo.
L’universalismo è stato l’aspirazione sia delle rivoluzioni borghesi che di quelle proletarie dei secoli scorsi.
E però ha finito per essere, come era inevitabile, la pretesa di codificare come universale la cultura, l’etica, la visione del mondo, i comportamenti sociali dei vincitori. Nel concreto: dell’occidente capitalista democratico. Che non è cosa – intendiamoci – da buttar via, basti pensare alle dittature di ogni genere. Ma che non può certo pretendere di rappresentare il solo modello di modernità possibile, il solo che possa definirsi civiltà. Non foss’altro perché a determinare tale modello è stata solo una minoranza dell’umanità. Tuttora largamente esclusa, anche perché esclusa dal potere di informazione, visto che il 90 per cento delle notizie su quanto accade sono in mano ai media occidentali.
Il problema di definire l’universalismo non era così importante fin quando ognuno viveva a casa sua. Il colonialismo, certo, aveva già creato non pochi problemi, cercando di imporre con la forza la cultura della metropoli, ma l’ usurpazione era delocalizzata. Oggi, per effetto della globalizzazione, la diversità non è più dislocata geograficamente, l’incontriamo all’angolo della strada, al supermarket, nella scuola dei nostri bambini, fra i vicini di casa. Per questo il tema è diventato così scottante e gestito da tutti, non solo dalla Legione Straniera.
E’ stato affrontato in modi diversi nello stesso Occidente. La Francia è stata più generosa di altri paesi nell’accoglienza di coloro che erano portatori di diversità culturali e religiose, perché ha aperto più degli altri le sue porte agli immigrati. Ma a una condizione: che accettassero di diventare francesi fino in fondo, di essere integrati senza riserve nella Repubblica. La vicenda del chador dichiarato illegale non è che un esempio.
Diverso l’approccio della Gran Bretagna, che ha concesso grande autonomia nel privato a chiunque arrivasse dall’Africa o dall’Asia, bastandogli la disciplina sul piano pubblico. Non per liberalità, ma, come ebbe a dire con ironia il fondatore dei post colonial studies, Stuart Hull, perché razzisticamente convinti che tanto quei neri e quei gialli non sarebbero mai stati capaci di diventare inglesi.
In epoche più recenti i «buoni» hanno riconosciuto il diritto alla diversità culturale, e in proposito si è persino strappata, nel 2005, una Convenzione dell’Unesco. In nome della quale si è proclamato il diritto per ogni comunità di preservare la propria cultura e di ottenerne il rispetto. I nostri migliori sindaci si sono adoperati a costruire moschee e centri culturali in cui ognuno potesse coltivare per il proprio autoconsumo i propri valori. (Mai però si sono impegnati a far sì che noi apprendessimo almeno qualche rudimento delle culture di chi è venuto ad abitarci vicino!). Meglio che la prevaricazione, o peggio l’oppressione e la persecuzione.
Ma un mondo arlecchino, con ognuno chiuso nel proprio ghetto, rappresenta la rinuncia all’universalismo. Le culture non sono sementi che vanno conservate in nome della biodiversità, se non cambiano, non si innestano reciprocamente, perdono il dinamismo indispensabile alla loro funzione antropologica. Un relativismo estremo non è tolleranza, è sordità.
Io non credo si debba rinunciare all’obiettivo di costruire un comune sistema di valori, sia pure conservando la ricchezza delle diversità. E allora non servono i ghetti, sia pure immaginati come protezione, così come li vive il chiusissimo e rigidissimo comunitarismo americano. Edward Said, il grande intellettuale palestinese, diceva: «Le culture dell’altro sono preziose per noi, per dinamizzare le nostre società. Non si tratta di tollerarle, facendo del multiculturalismo un feticcio, ma di assumerle come risorsa critica di noi stessi».
Ecco, proprio questa frase di Said mi è venuta in mente in questa tragica occasione dell’eccidio di Parigi. Non voglio certo mettere in discussione quanto in termini di libertà individuale abbiamo conquistato con la rivoluzione francese, ma spingere a riflettere su aspetti della cultura araba e islamica – non ovviamente dell’Isis – che dovremmo assumere come utile critica alla nostra cultura occidentale. Penso alla critica all’individualismo esasperato, ai diritti intesi come prerogativa assoluta dell’individuo, innanzitutto. E alla competitività anche brutale eletta a rango di regola essenziale, tanto è vero che questo principio è iscritto negli articoli fondanti del Trattato dell’Unione Europea, cui sempre più si sacrifica ogni forma di solidarismo, sì da aver generato la più mostruosa disuguaglianza mai conosciuta nella storia.
Non c’è forse materia per riflettere anche autocriticamente sul «moderno» che abbiamo creato, anziché riaffermare con fastidiosa baldanza la nostra superiorità, in nome di un canone occidentale altamente fossilizzato?
La costruzione di un universale comune, insomma, è obiettivo storico da perseguire, ma nella consapevolezza che si tratta di un lungo e difficile processo dialogico che potrà aver successo solo nella misura in cui tutti saranno stati posti in grado di contribuire a definirlo, perché dotati dello stesso potere di informazione, di formazione, di conoscenze.
Attrezzarsi a rendere questo processo possibile mi sembra il solo modo per evitare le ossessioni prodotte dal contatto stretto fra culture diverse che la globalizzazione ha generato.
Non si tratta di un discorso teorico. Si tratta molto concretamente di ripensare alla cittadinanza europea, che non può più esser fondata sulla comunità di sangue ma non può nemmeno più esser fondata sul solo legame col suolo. Le culture sono infatti sempre più transnazionali e il loro rapporto col territorio è sempre più soggetto a temporalità. Dentro l’Europa stessa e per chi viene da fuori. Il «noi» e il «voi», e i confini che lo definivano, sono ormai rimessi in discussione. Prendendo atto delle proporzioni ormai assunte dai processi migratori, e di come questi esigessero una ridefinizione del paradigma di cittadinanza, Jaques Attali, consigliere di Mitterand, diceva: «È il nomade il cittadino del futuro, non lo zappatore sedentario». E tenendo conto, per di più, che ogni cultura, in ogni parte del globo, è ormai attraversata da un immenso processo di riesame, autodefinizione, autoanalisi, in relazione al presente e al passato. Blindare l’immaginario dentro confini stabiliti appare sempre più esercizio degno di Salvini.
Non è facile, né ci si può accontentare del tentativo unificatore della potenza egemone, così come del superficiale «democratico sguardo cosmopolita» mitizzato da Ulrich Beck. La diversità culturale non è un termine indolore, non ci parla di «varietà» ma di contraddizioni dure; e di conflitti.
Per questo costruire un universalismo vero non è un pranzo di gala. Anche solo per raggiungere la definizione che ne dava Francesco De Martino in «Fine del mondo»: «Quel fondo universalmente umano in cui il proprio e l’alieno sono soppressi come due possibilità storiche di essere uomo».
Un opuscolo che conteneva saggi e proposte su questo tema, redatto nel 2006 da Kevin Robins, un funzionario del Consiglio d’Europa (sempre assai più coraggioso dell’Unione Europea, anche perché l’organismo non ha poteri deliberanti), concludeva con scetticismo: «Tutto questo non sarà facile da parte di governi che suonano la tromba per esaltare le virtù della globalizzazione e della diversità, ma che poi blindano le frontiere dei loro paesi e rafforzano le misure di vigilanza contro l’ingresso dei migranti».
Esattamente quanto si sono affrettati a decidere i ministri europei nel corso stesso della manifestazione di Parigi (una volta tanto non da quelli italiani). La sicurezza contro il terrorismo va bene, ma se si pensa che saremo sicuri grazie a droni, truppe d’assalto e migranti che affogano nel Mediterraneo, anziché affidarci alla politica, non andremo lontano
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