Le cose stanno molto diversamente. E lo si capisce soprattutto andando a guardare la situazione dello stabilimento da cui è partita la «rivoluzione» del manager canado-abruzzese: Pomigliano e il suo referendum «lavoro in cambio della cancellazione dei diritti» del 2010. La fabbrica modello, vincitrice del titolo Gold medal (medaglia d’oro nella nuova organizzazione imposta dal sistema Wcm) è per una settimana in cassa integrazione per fermata di produzione. Un’altra settimana di stop è stata fatta a novembre.
Ma è il futuro a fare paura ai quasi 5mila operai napoletani. A parte i 300 ancora rinchiusi nel reparto ghetto di Nola e i 500 della ex Marelli, dei circa 4.500 operai riassorbiti in Fca Italy da un anno in contratto di solidarietà, solo 3mila lavorano a (quasi) pieno regime. Ai 1.500 che non sono nei reparti di produzione, i giorni di lavoro al mese garantiti sono solo quattro. Gli unici un po’ più sereni sono le poche decine di operai che — come da storica prassi Fiat — saranno spostati a Melfi. Con il contratto di solidarietà — battaglia che la Fiom portava avanti sin dal 2012 — la loro busta paga si è comunque alzata di almeno 300 euro, arrivando anche a quota 1.200.
Il problema è sempre quello: per far lavorare tutti serve un secondo modello che affianchi la Panda, ormai in saturazione nonostante sia comunque l’auto Fca più venduta. Pomigliano è stato sorpassato da Melfi, ma lo sarà — sempre che Marchionne non si rimangi le promesse, come ha già fatto più volte — anche da Cassino (dove dal 2016 dovrebbe arrivare l’Alfa Giulia) e da Mirafiori (dove nel 2016 entrerà in produzione il Suv Maserati Levante).
I tentativi degli anni scorsi di “affittare” le nuove linee a Mazda e perfino all’odiata Volkswagen sono falliti. «Se a giugno Marchionne non annuncerà un secondo modello il futuro di Pomigliano sarà a rischio», riconoscono anche Fim e Uilm, due principali sindacati firmatari.
Nel frattempo il grande manager ha fissato la sua sede fiscale a Londra — lì bastano due piani di uffici per poter pagare le tasse e risparmiare 5 punti di pressione fiscale — e quella legale in Olanda — dove terrà i Cda in un aeroporto per risparmiare tempo nei viaggi da Detroit — e continua a dispensare ottimismo sul 2015. La mezza scommessa vinta sul riuscire a vendere oltreoceano Suv prodotti in Italia — il Jeep Renegade a Melfi — non significa minimamente mantenere la promessa della piena occupazione in Italia nel 2018. Anzi. Sfruttando il Jobs act, Marchionne punta ai contratti di stabilimento: dove i modelli funzionano si assume (a salari e diritti ridotti, potendo sempre licenziare), dove i modelli non vendono si licenzia e basta.
La «svolta» tanto attesa non si è concretizzata neanche sul piano sindacale. Se è vero che qualche passo avanti è stato compiuto, riguarda comunque accordi marginali. Prova ne sia il fatto che le elezioni per il rinnovo delle Rsa del gruppo Fca partiranno il 2 febbraio da Melfi prevedendo ancora l’esclusione della Fiom, nonostante la sentenza della Corte Costituzionale. Le trattative per trovare un accordo sono naufragate all’inizio della settimana. Lo scoglio è sempre lo stesso: i sindacati firmatari chiedono alla Fiom di sottoscrivere l’accordo aziendale del 2010. I metallurgici della Cgil hanno perfino proposto di mutuare l’inviso Accordo sulla rappresentanza, ma qui pure l’azienda è contraria: sarebbe come rientrare in Confindustria.
Così oggi nella palazzina di Corso Trieste 36 dove i rapporti fra dirimpettai sono ancora gelidi — sulla gestione del condominio si continua a rischiare una causa — si siglerà un accordo sull’elezione dei Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. Ma firmandolo non si farà altro che rispettare una legge dello Stato, senza che ci sia niente di sindacale nel farlo.
Per le elezioni delle Rsa — anche nell’indotto, come la Automotive Lighting di Tolmezzo (Ud) — nessun ripensamento: Fim, Uilm, Fismic, Ugl e Quadri terranno le loro elezioni, la Fiom esclusa eleggerà separatamente i suoi rappresentanti. «Noi andiamo avanti così, è la Fiom che deve riconoscere gli accordi», ribadisce Ferdinando Uliano della Fim.
A rompere il finora granitico fronte dei sindacati firmatutto è arrivato il segretario Uilm della Campania Giovanni Sgambati, che ha criticato la decisione della commissione elettorale di Pomigliano, giudicandola «troppo frettolosa»: «È giunta l’ora che i lavoratori possano votare una rappresentanza condivisa da tutti», proponendo che «proprio da Pomigliano ci si inventi qualcosa di nuovo, affinchè sia possibile una ripartenza onorevole per tutti».