La locomotiva cinese rallenta I manager guardano agli Usa

La locomotiva cinese rallenta I manager guardano agli Usa

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PECHINO Bisogna preoccuparsi per una crescita del 7,4 per cento della seconda economia del mondo nel 2014? È la domanda che si pongono gli analisti davanti ai dati del Pil della Cina, che mostrano l’espansione più lenta dal 1990, quando Pechino scontava il contraccolpo delle sanzioni internazionali per il massacro sulla Tienanmen nel 1989 e l’anno si chiuse al +3,8%. Per trent’anni l’economia cinese era avanzata al ritmo del 10% l’anno, con punte del 14% ancora nel 2007. Poi il rallentamento: nel 2012 e nel 2013 il Pil era salito del 7,7%. Per il 2014 il governo aveva fissato un obiettivo «intorno» al 7,5% che non è stato raggiunto per un piccolo 0,1. Ma il decimale rappresenta il primo fallimento dei pianificatori statali dal 1998, quando l’economia era indebolita dalla cosiddetta «febbre asiatica dei mercati».
I problemi per Pechino sono evidenti e da tempo sono riconosciuti dal governo: eccesso di capacità produttiva; domanda globale debole per la crisi in Occidente; mercato immobiliare in caduta tanto da far temere l’esplosione della bolla (questo settore da solo vale più del 15% del Pil cinese). Il governo cinese da un paio d’anni ha ammesso che è necessario ristrutturare, riequilibrare la crescita per renderla «sostenibile»: significa trasformare il sistema per trent’anni orientato verso la produzione a basso costo affidata a industrie altamente inquinanti; significa fare meno affidamento sulle esportazioni (fenomeni sostenuti da un credito illimitato che ha creato una montagna di debito interno). Riequilibrare per la Cina significa creare le condizioni per aumentare la domanda interna. Ora si valuta che i consumi interni valgano intorno al 35% del Pil (rispetto a oltre il 70% in Occidente) e l’obiettivo di medio termine e di farli salire fino al 55%. Questi gli elementi negativi del quadro (ma una crescita del 7,4% è sempre la più imponente del mondo globalizzato). In conclusione la Cina, per i pessimisti, rischia di cadere nella «trappola del reddito medio» nella quale sono cadute quindici anni fa potenze industriali emergenti in Asia.
Ma Pechino sa di dover riformare l’economia e vuole rassicurare il mondo. Per questo il premier Li Keqiang è a Davos, al World economic forum. Lo hanno accolto con una relazione di PricewaterhouseCoopers che, in sostanza, certifica, per il 2015, il controsorpasso degli Usa sulla Cina come mercato estero più promettente per la maggioranza relativa dei top manager. I leader cinesi replicano che la loro economia è ancora «in via di sviluppo». Dietro la modestia la realtà della diseguaglianza sociale: visto pro capite, il Pil cinese è all’80° posto. «Continueremo a incrementare i consumi delle famiglie perché questo serve come nuovo motore per la crescita», dice Li. La famiglia cinese media continua a risparmiare il 40% del reddito, rispetto al 5,2 di quella Usa: c’è ampio spazio per manovrare, anche se la Cina non ha un sistema di sicurezza sociale e pensioni paragonabile a quello occidentale.
E ci sono molti altri fattori positivi. Anzitutto il 7,4% di crescita nel 2014 è superiore alle aspettative che fino a ieri la ponevano al 7,2-7,3 (infatti le Borse asiatiche hanno reagito salendo). E poi oggi il Pil cinese vale circa 10,4 trilioni di dollari: quindi il +7,4% sono circa 700 miliardi di dollari, tanti quanti il +14% dello stellare 2007. È questa la «nuova normalità» di cui parla il presidente Xi Jinping e che in Occidente sarebbe un miracolo.


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