L’illusione della governance del capitalismo

by redazione | 13 Gennaio 2015 8:25

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Sono pas­sati sette anni dall’inizio della crisi economico-finanziaria più grave dal secondo dopo­guerra ad oggi. È tempo di bilanci. Ma poi­ché il periodo di crisi è lungi dall’essere supe­rato, tali bilanci sono neces­sa­ria­mente prov­vi­sori.
Tra que­sti, degno di nota è sicu­ra­mente quello di Ben S. Ber­nanke, gover­na­tore della Fede­ral Reserve Usa (Fed), pro­prio durante il periodo caldo della crisi e sosti­tuito alla guida della Banca Cen­trale Sta­tu­ni­tense a par­tire dal 6 gen­naio 2014 da Janet L. Yal­len, già sua vice dall’ottobre 2010. Si tratta di quat­tro semi­nari tenuti alla George Washing­ton Uni­ver­sity nel marzo del 2012, i cui video sono dispo­ni­bili al sito uffi­ciale: http://?www?.fede?ral?re?serve?.gov/?new sevents/lectures/about.htm e la cui ver­sione scritta è ora dispo­ni­bile in ita­liano nel volume La Fede­ral Reserve e la crisi finan­zia­ria (Il Sag­gia­tore, trad. di Adele Oli­vieri, pp. 175, euro 16).
Con un lin­guag­gio sem­plice e chiaro, nel primo semi­na­rio, Ber­nanke descrive il ruolo della Banca Cen­trale e i suoi obiet­tivi. Nel secondo, la for­ma­zione da sto­rico eco­no­mico (Ber­nanke ha scritto infatti un libro sulla Grande Depres­sione degli anni Trenta) prende il soprav­vento, quando l’ex gover­na­tore descrive la crisi del ’29–30, gli errori dell’allora Fed, le deci­sioni politiche-economiche (New Deal) che ne hanno con­sen­tito la fuo­riu­scita (uni­ta­mente all’impegno mili­tare Usa nella seconda guerra mon­diale, aggiun­ge­remmo noi) e il suo ruolo nella cre­scita eco­no­mica del dopoguerra.

Dopo il panico
Negli ultimi due semi­nari, si ana­liz­zano le cause dell’attuale crisi finan­zia­ria e le sue con­se­guenze sul sistema eco­no­mico glo­bale. Al riguardo, nella lezione finale, ci si sof­ferma sull’analisi di come il ruolo della Fed sia stato deci­sivo a sven­tare la minac­cia di un tra­collo finan­zia­rio, soprat­tutto nel bien­nio 2009-10.

La tesi prin­ci­pale di Ber­nanke, come è anche ripor­tato nella IV di coper­tina, è che: «Gli Stati Uniti hanno scon­giu­rato il col­lasso finan­zia­rio e hanno imboc­cato la via della ripresa». Gra­zie soprat­tutto all’operato della Fede­ral Reserve.
Il com­pito delle Ban­che Cen­trali è duplice: da un lato, «per­se­guire la sta­bi­lità macroe­co­no­mica, ossia una cre­scita rego­lare dell’economia, evi­tando ampie flut­tua­zioni e man­te­nendo un’inflazione mode­rata e sta­bile», dall’altro, «pro­muo­vere la sta­bi­lità finan­zia­ria…, in par­ti­co­lare pun­tando a scon­giu­rare le crisi e le ondate di panico o, quan­to­meno, miti­garne gli effetti». Se nella crisi del ’29–30, l’intervento della Fed era stato meno pronto e comun­que ina­de­guato a con­tra­stare l’ondata di panico e a essere pre­sente come pre­sta­tore di ultima istanza, nella crisi del 2008–9 tali errori non si sono ripetuti.

Sulla base di que­sto assunto, Ber­nanke giu­sti­fica così l’interventismo imme­diato della Fed all’indomani del fal­li­mento della Leh­mann Bro­thers. Un inter­ven­ti­smo (accu­sato da destra di sta­ta­li­smo) che si è fon­dato su un dop­pio pila­stro. Nell’immediato, si è pro­ce­duto all’acquisto dei titoli in caduta libera e all’erogazione di pre­stiti alle prin­ci­pali società finan­zia­rie che erano sull’orlo del fal­li­mento: ci rife­riamo in par­ti­co­lare al colosso assi­cu­ra­tivo Aig (un pre­stito fede­rale di circa 40 mld di dol­lari) e alla nazio­na­liz­za­zione di fatto delle due società par­zial­mente pub­bli­che (GSE, Government-Sponsored Enter­prise) Fan­nie Mae e Fred­die Mac, le due finan­zia­rie prin­ci­pal­mente coin­volte nel crollo dei sub­prime. Nel medio ter­mine, la Fed ha invece intra­preso una poli­tica di quan­ti­ta­tive easing, fina­liz­zata a garan­tire la neces­sa­ria liqui­dità per il sosten­ta­mento e la ripresa dei mer­cati finanziari.

Ber­nanke dedica alcune pagine a giu­sti­fi­care que­sti inter­venti che rom­pono con l’ortodossia neo­li­be­rale e mone­ta­ri­sta, sia affer­mando che non vi era alter­na­tiva visto la gra­vità della crisi, sia mostrando come il ruolo di pre­sta­tore di ultima istanza non abbia influito in maniera deter­mi­nante sul debito pub­blico Usa (quasi rad­dop­piato negli anni della crisi), in quanto tutti pre­stiti ero­gati sono stati poco alla volta rim­bor­sati sino all’ultimo dol­laro. E anche le quote socie­ta­rie pri­vate acqui­state dallo Stato sono state suc­ces­si­va­mente riven­dute sul mer­cato pri­vato (vedi, ad esem­pio, il caso Chrysler).

Obiet­tivo della poli­tica della Fed non è mai stato quello di sosti­tuirsi al mer­cato pri­vato e al libero scam­bio, ma piut­to­sto riba­dirne il pri­mato, in una fase con­giun­tu­rale dove lo stesso mer­cato pri­vato aveva dimo­strato una sua inef­fi­cienza, a prezzo di costi sociali (in ter­mini di disoc­cu­pa­zione e sta­gna­zione dei red­diti). Ber­nanke si sof­ferma sul ruolo posi­tivo, ma tran­si­to­rio e anti­ci­clico, della poli­tica mone­ta­ria, per riba­dire che — in ogni caso — la Banca Cen­trale è ancora in grado di indi­riz­zare e gover­nare i mer­cati finanziari.

Qui sta il punto prin­ci­pale. È pro­prio vero che le Ban­che Cen­trali sono ancora in grado di con­trol­lare i mer­cati finan­ziari? O que­sta è un’illusione super­fi­ciale, sotto la quale si nasconde una realtà assai diversa? Ber­nanke mette a con­fronto la man­cata rispo­sta della Fed (soprat­tutto come pre­sta­tore di ultima istanza) nella Grande Depres­sione con il posi­tivo inter­vento del 2009. Impli­ci­ta­mente si sup­pone che il ruolo dei mkt finan­ziari sia rima­sto più o meno lo stesso: sem­plice rial­lo­ca­zione di rispar­mio (ovvero moneta già in cir­co­la­zione nel sistema eco­no­mico) dalle fami­glie alle imprese e allo Stato. Ma nel bio-capitalismo cogni­tivo e finan­zia­riz­zato non è più così, o almeno, non è più solo così.
Oggi i mkt finan­ziari gio­cano un ruolo di ben altro spes­sore: sono fonte di finan­zia­mento dell’attività inno­va­tiva tra­mite le plu­sva­lenze, sosti­tui­sco sem­pre più il wel­fare pub­blico con forme (pri­vate) di sicu­rezza sociale favo­rendo pro­cessi di gover­nance debi­to­ria che aumen­tano in modo nuovo la sus­sun­zione del lavoro al capi­tale, met­tono in moto un mol­ti­pli­ca­tore finan­zia­rio assai distorto che, sosti­tuendo in parte quello tra­di­zio­nale key­ne­siano (agito dal defi­cit spen­ding), influenza la domanda aggre­gata ma favo­rendo la pola­riz­za­zione dei red­diti. In altre parole, i mkt finan­ziari oggi det­tano la gover­nance del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo e non svol­gono più quel ruolo mar­gi­nale (sep­pur fon­da­men­tale) dell’epoca for­di­sta, fun­zio­nale alla rea­liz­za­zione mone­ta­ria del profitto.

In un simile con­te­sto, la gover­nance isti­tu­zio­nale (banca cen­trale e governo) tende ad essere subor­di­nata alla dina­mica degli mkt finan­ziari. Una dina­mica che sem­pre più dipende dallo svi­luppo delle con­ven­zioni finan­zia­rie, sulla base di un pode­roso pro­cesso di con­cen­tra­zione che oggi si fonda sul con­trollo dei flussi finan­ziari e non più sulla pro­prietà effet­tiva dei titoli.

Flussi e riflussi
Ne con­se­gue che la poli­tica mone­ta­ria viene decisa in fun­zione delle tra­iet­to­rie spe­cu­la­tive che le oli­gar­chie finan­zia­rie auto­no­ma­mente per­se­guono. Le Ban­che Cen­trali (anche la Fed) non può far altro che asse­con­dare pas­si­va­mente tali dina­mi­che, pena il rischio di aumen­tare un’instabilità che è già, di per se stessa, siste­mica e strut­tu­rale. La Fed, da que­sto punto di vista, a dif­fe­renza della Bce (che ha scon­tato per ragioni geo­po­li­ti­che e di ottu­sità ideo­lo­gica un ritardo che oggi paghiamo nel seguirne le orme), è stata abile non tanto a con­trol­lare e a indi­riz­zare i mer­cati finan­ziari ma piut­to­sto a assecondarli.

Non è un caso che appena ha cer­cato di libe­rarsi da que­sta dipen­denza (come è suc­cesso nell’estate scorsa quando il diret­to­rio Fed ha mani­fe­stato l’intenzione di ridurre dra­sti­ca­mente l’iniezione di liqui­dità – tape­ring), la rispo­sta del potere finan­zia­rio è stata tale da scon­si­gliarne l’applicazione, almeno fin­tanto che la crea­zione di nuova liqui­dità non tro­vava una nuova fonte. È in parte ciò che sta acca­dendo oggi con l’aumento di flussi di capi­tale inter­na­zio­nale verso gli Usa, a seguito delle ten­sioni valu­ta­rie che si sono veri­fi­cate nell’ultimo anno: a riprova che la sta­bi­lità finan­zia­ria è ben lungi dall’essere assicurata.

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