L’esercito ucraino bombarda, terrore a Done­tsk

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Morti e ancora morti. Le ultime due set­ti­mane sono state tra le più pesanti per la popo­la­zione del Don­bass. Tre­dici vit­time a Done­tsk, ieri mat­tina. Ancora una volta, preso di mira un auto­bus nel cen­tro della città. Le fer­mate e i mezzi di tra­sporto pub­blici sono diven­tati una costante delle arti­glie­rie dell’esercito ucraino, insieme ad abi­ta­zioni, ospe­dali, scuole e asili.

Per le vit­time, fa poca dif­fe­renza che, come nel caso dell’autobus col­pito la scorsa set­ti­mana a Vol­no­va­kha (dodici morti e una ven­tina di feriti), sia stata usata una mina a tempo; oppure che, per il tran­vai di ieri a Done­tsk, gruppi di mili­tari sabo­ta­tori abbiano spa­rato con mor­tai da breve distanza: non si tratta mai di obiet­tivi casuali. Fonti degli insorti sosten­gono che la visita sul fronte della guerra a Done­tsk del capo del Con­si­glio di Difesa ucraino Alek­sandr Tur­ci­nov lea­der di Maj­dan e «noto per le sue azioni di sabo­ta­tore», abbia pre­ce­duto di poco il tiro del mor­taio. Per i morti del Don­bass fa poca dif­fe­renza il tipo di armi usate: che sia l’aviazione ucraina a semi­nare morte a Gòr­lo­vka (trenta vit­time sabato scorso) o le arti­glie­rie gover­na­tive a spa­rare con­tro Done­tsk (4 morti e 12 feriti ieri l’altro) oppure i sistemi «Grad» e «Ura­gan» delle forze armate di Kiev a pro­vo­care i sei morti di mer­co­ledì a Sta­kha­nov, a sudo­vest di Lugansk. Ieri per rea­zione alcuni sol­dati ucraini cat­tu­rati nella bat­ta­glia dell’aeroporto sono stati fatti sfi­lare per le vie di Done­tsk fino al luogo della strage.

Le ultime due set­ti­mane, ini­ziate dopo la mar­cia di Parigi con­tro il ter­ro­ri­smo e per le vit­time di Char­lie Hebdo con in prima fila tanti lea­der ambi­gui come Poro­shenko, non hanno dimo­strato altro che l’ipocrisia di coloro che, a brac­cetto dei padrini finan­ziari e mili­tari, bom­bar­dano e ter­ro­riz­zano i pro­pri stessi cit­ta­dini. Non riu­scendo a venire a capo, al fronte, di insorti pronti al sacri­fi­cio per­so­nale per la pro­pria indi­pen­denza ter­ri­to­riale e non potendo fare affi­da­mento su un eser­cito ormai demo­ra­liz­zato, il governo di Kiev ricorre ai bom­bar­da­menti e agli atten­tati ter­ro­ri­stici con­tro i cen­tri abi­tati. Nel migliore dei casi, quando anche «i bat­ta­glioni di volon­tari filo­go­ver­na­tivi» (come ven­gono defi­niti dai media nostrani, per attri­buire una patente di legit­ti­mità ai bat­ta­glioni neo­na­zi­sti) si rive­lano ini­do­nei, si man­dano allo sba­ra­glio le reclute demo­ti­vate delle ultime mobi­li­ta­zioni (saranno 100mila uomini in tre sca­glioni nel corso del 2015) com’è acca­duto nei giorni scorsi attorno all’aeroporto di Done­tsk, allor­ché, secondo gli stessi mili­tari, il comando li avrebbe inviati a recu­pe­rare «came­rati» feriti, in un’area in mano alle milizie.

Sul con­trollo di ciò che resta dell’aeroporto di Done­tsk si è svolta nelle set­ti­mane pas­sate, oltre che una cam­pa­gna di guerra con cen­ti­naia di morti da una parte e dall’altra, anche una «guerra di infor­ma­zione»: ieri Kiev ha ammesso la per­dita della posi­zione, in realtà abban­do­nata sabato scorso. Quello che i media di casa nostra, citando i neo­na­zi­sti di «Azov», esal­tano come «l’epopea dell’eroica difesa» dell’aerostazione, è costata a Done­tsk la morte di cen­ti­naia di civili: è da lì infatti che le truppe di Kiev bom­bar­da­vano la città. Ora che, dopo la riu­nione di mer­co­ledì a Ber­lino del Gruppo di Con­tatto — Fran­cia, Ger­ma­nia, Rus­sia e Ucraina — sem­bra si sia riu­sciti a defi­nire l’allontanamento dalla linea del fronte delle arti­glieri pesanti ucraine e degli insorti, ecco che entrano in azione i gruppi di sabo­ta­tori e l’obiettivo rimane, come prima, la popo­la­zione civile.

Mosca sem­bra da tempo aver rivolto i pro­pri sforzi a insi­nuare un cuneo all’interno del fronte gover­na­tivo di Kiev, pun­tando sul pro­tégé euro­peo Poro­shenko, a parole da sem­pre dispo­ni­bile al dia­logo, con­tro i fal­chi filoa­me­ri­cani Jatse­n­juk e Tur­ci­nov. Evi­den­te­mente, o il pre­si­dente parla un lin­guag­gio che non cor­ri­sponde alle azioni, come sosten­gono nella Novo­ros­sija (il Don­bass insorto), oppure non rive­ste che un ruolo di rap­pre­sen­tanza per le can­cel­le­rie euro­pee, asse­diato dai bel­li­ci­sti con­trol­lati dalla Nato e da Washing­ton. «Quello del 2015 è un bilan­cio di guerra» ha detto nei giorni scorsi il pre­mier Jatse­n­juk; «è una cifra record – 5,7 miliardi di dol­lari – che supera il 5,2% del Pil». Ma anche sul cini­smo di Poro­shenko, ha richia­mato l’attenzione il poli­to­logo ucraino Vla­di­mir Kor­ni­lov che ha defi­nito «inau­dito» il suo gesto a Davos, quando ha mostrato una lamiera dell’autobus fatto sal­tare a Vol­no­va­kha: «Si taglia a pezzi l’autobus e se ne fanno sou­ve­nir per Poro­shenko, che poi lui porta in giro per il mondo; con le inda­gini in corso, il pre­si­dente sot­trae una prova deter­mi­nante dalla scena del delitto:». D’altronde — e que­sto ali­menta e cri­ti­che russe espresse ieri dal mini­stro degli esteri Ser­ghei Lavrov — non sono certo le prove che inte­res­sano a Kiev: l’importante è rila­sciare dichia­ra­zioni alti­so­nanti – aereo malese: silen­zio sulle imma­gini che mostrano l’abbattimento da parte di un cac­cia ucraino; due­mila sol­dati russi che avreb­bero pas­sato il con­fine ucraino: imme­dia­ta­mente smen­tite da Osce e Nato; silen­zio sui 500 mer­ce­nari della Aca­demi (ex Blac­k­wa­ter) che com­bat­tono per Kiev; e così via – i mega­foni che le ampli­fi­cano, o le tac­ciono, in occi­dente si tro­vano sempre.



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