PARIGI C’è posto per tutti. La piccola Sophie sbuca dalla scala del metrò di rue Réaumur alzando con le mani sopra la testa un disegno semplice che i bambini delle elementari fanno almeno una volta nella vita, un girotondo intorno al mondo tenendosi per mano, e ogni omino somiglia a una razza, e in cima al foglio, accanto al sole, una scritta fatta con tanti gessetti colorati, c’è posto per tutti.
Agli arrabbiati e agli antagonisti perenni, nemici ad ogni costo del vogliamoci bene e della sua eventuale, forse inevitabile retorica, non piacerà una giornata come questa, con gli applausi e i merci in coro alle ambulanze che soccorrono chi ha un malore nella ressa, ai gendarmi, al passaggio dei blindati della polizia, agli immigrati della banlieue che dai tetti delle edicole dettano i cori alle ricche signore parigine.
Per tutti gli altri, quelli che capiscono ancora il bisogno e la necessità di restare umani anche dopo tanta insensata ferocia, il ricordo di questa marcia repubblicana contro il terrorismo diventerà balsamo nei momenti di sconforto. Arriveranno, inevitabilmente, perché «Il mondo è quello che è» come affermava uno delle migliaia di slogan bellissimi visti e letti per le strade di una Parigi che mai come ieri, ancora una volta, ci ha ricordato di saper essere la città delle luci e soprattutto dei lumi, «ma abbiamo il dovere di continuare a crederci», così diceva la seconda riga dello striscione.
L’appuntamento era in Place de la République, sotto alla statua della Marianna che alla base porta scolpito un altro motto inventato da queste parti ancora di una certa attualità, «libertà, uguaglianza, fratellanza». Ma già alle dieci del mattino è chiaro che i piani andranno rivisti. Il consueto mercato domenicale di boulevard Richard Lenoir viene fatto sgomberare in fretta e furia per fare spazio. La gente scende dai mezzi pubblici e si incammina verso il punto di partenza del corteo, che dista un paio di chilometri. Donne e uomini risalgono i viali sgomberati dalle auto in silenzio, con poche parole anche tra di loro. I fidanzati si tengono per mano, i genitori fanno lo stesso con i bimbi, tutti guardano dritto davanti, con questa serena convinzione stampata in faccia, esserci perché è giusto esserci.
Certo, ci sono trovate bellissime da raccontare. Come la matita di cartone che viene issata in cima alla statua e si prende il primo dei tanti interminabili applausi della giornata, come i ragazzi delle scuole ebraiche del Marais che si presentano dietro allo striscione «coexister» con la stella di David al posto della «x» e accanto a loro, mischiati a loro ci sono i giovani di una comunità islamica di Porte de Vincennes, quella del massacro alla drogheria ebraica, con lo stesso striscione, in arabo e in francese.
Ci sono cartelli individuali che danno il senso, «La religione è un’arma di pace», «La pace umana è possibile» e soprattutto una infinità di Charlie declinati in ogni possibile modo, i volantini con le facce di Charb, Wolinski e degli altri disegnatori e giornalisti ammazzati appena cinque giorni fa, e sembra già passato così tanto tempo, che vengono lanciati dai balconi, verso il cielo e poi sulla folla. Ma infine è il silenzio che può essere prodotto da due milioni di persone, senza contare un altro milione nelle altre principali città del Paese, questa serietà come unico rumore di fondo, la Marsigliese cantata in un sussurro con gli occhi lucidi, con partecipazione, quel che resterà della più grande manifestazione nella storia di Francia.
«Io sono Charlie», «Io sono poliziotto, arabo ed ebreo». Alle 15 François Hollande si avvicina al giornalista Patrick Pelloux e al disegnatore Renald «Lux» Lucier, tra i pochi superstiti del massacro nella redazione di Charlie Hebdo , e li abbraccia. Il presidente francese e gli altri cinquanta capi di Stato e di governo arrivati da tutto il mondo si mettono in seconda fila, dietro allo striscione del settimanale satirico.
Sono arrivati dall’Eliseo in pullman, come alle gite scolastiche, faranno solo un piccolo tratto di strada lungo il boulevard che guarda caso è intitolato a Voltaire, titolare della frase definitiva sulla tolleranza delle opinioni altrui. Ma vederli tutti insieme per la prima volta a una manifestazione pubblica, compresi il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen a poca distanza uno dall’altro, non era scontato, e neppure facile dopo quel che è successo. Magari per poco, come dicono i parigini che li vedono sfilare accanto a loro, però è qualcosa che restituisce speranza, un segno forte.
La marcia repubblicana non è tale per molta gente, diventa ben presto una marcia da fermo. In boulevard de Temple almeno trecentomila persone vengono invitate a girare il corteo ritornando da dove sono venute, niente arrivo a Nation per mancanza di spazio, e anche questo non era mai avvenuto prima, nella città dai viali più grandi d’Europa. Ma nessuno si lamenta, nessuno pensa al rischio. I cecchini sui tetti sono visibili a tutti, e diventano bersaglio, proprio il caso di dirlo, di applausi, ovazioni e cori di ringraziamento, che loro ricambiano sporgendosi a salutare con la mano libera dai fucili. Il mondo rovesciato, ma in bello, almeno per una volta.
«Tous ensemble», era lo slogan della manifestazione. Parigi ha vinto perché ieri è stata capace di dare un senso universale a quel messaggio, senza dividersi, senza dimenticare le minoranze del mondo. La comunità curda prende posto in piazza di mattina presto innalzando un vecchio articolo di Charb, il direttore di Charlie Hebdo , favorevole alla causa del loro popolo, e Husein Hassan, portavoce del loro istituto parigino, si commuove vedendo che ai piedi della Marianna insieme alle vittime delle grandi stragi terroristiche degli ultimi anni c’è anche il ricordo di tre militanti uccise proprio in questa città nell’inverno del 2013. «Non ci avete cambiato, non ci cambierete mai» cantano i ragazzi che tornano indietro da Nation mentre si accendono i lampioni sui boulevard. C’è posto per tutto e tutti, tranne che per il terrorismo.
Marco Imarisio