Detto questo, occorre evitare che la soddisfazione per la scelta del nuovo capo dello Stato induca a perdere di vista le pesanti ombre che gravano sulla scena politica italiana. Prescindiamo qui da qualsiasi considerazione storica: sorvoliamo cioè sul fatto che, come nel gioco dell’oca, a vent’anni da Tangentopoli l’Italia si ritrova governata e presieduta da politici democristiani. Mattarella è un galantuomo estraneo al circo della politica politicante. Ma è stato pur sempre a lungo un esponente di spicco del partito che per decenni, nel secolo scorso, ha incarnato e coperto un organico intreccio di corruzione, conservazione e collusione col malaffare e con quella stessa mafia che gli uccise il fratello, presidente della Sicilia. Evidentemente siamo destinati a «morire democristiani», e forse qualche domanda dovremmo porcela al riguardo.
Ma non è questo il tema oggi. Piuttosto vale la pena di riflettere brevemente su altre tre questioni. La prima è perché Renzi abbia voluto Mattarella. Tutti dicono che l’ha scelto per tenere unito il Pd e perché lo considera malleabile. Perché prevede in lui un presidente di basso profilo politico, che non interferirà nella sua tenace opera di smantellamento della Costituzione e di normalizzazione del paese a suon di «riforme» piduiste: un presidente «soprammobile», secondo la raffinata dottrina esposta da Angelo Panebianco sul Corriere della sera qualche giorno fa. Può darsi che questi siano i calcoli del presidente del Consiglio e anche che il piano sia ben studiato. Noi ovviamente speriamo di no. Ci auguriamo che Renzi si sia clamorosamente sbagliato e che Mattarella risponda invece alle aspettative di quanti oggi pensano di avere scampato un pericolo perché vedono in lui un severo custode della Costituzione.
Ma l’auspicabile elezione di un buon presidente non cancella le ignominie di questi giorni e di questi mesi, dall’eliminazione del Senato elettivo al Jobs act, a una legge elettorale zeppa di vizi di incostituzionalità e imposta al Parlamento con la consapevolezza che la Consulta la boccerà a babbo morto, dopo l’elezione della nuova Camera, come è già accaduto col porcellum. Se questo è vero, nulla sarebbe più irragionevole che ammorbidire a questo punto l’opposizione alle «riforme» renziane. Al contrario: la crisi del patto del Nazareno – chiave di volta del «riformismo» renziano – va sfruttata sino in fondo allo scopo di bloccarle. E di costringere il governo a cessare dalla sistematica mortificazione del Parlamento che sta di fatto portando alla morte del sistema parlamentare, come accadde, proprio novant’anni fa, nella transizione al regime totalitario.
Infine, la considerazione forse più rilevante. Da giovedì è un coro sperticato di riconoscimenti dell’abilità del premier che, con una mossa imprevista, ha messo tutti nel sacco, a cominciare dal capo di Forza Italia che certo un novellino non è, né un’anima candida. C’è un’allarmante confusione alla base di queste valutazioni, una confusione che è segno di un’antica tara italiana. L’abilità e il coraggio nel giocare una partita e la spregiudicatezza (in questo caso, va detto, ben oltre il limite della lealtà) non dicono di per sé nulla sui fini perseguiti. Proprio come il carisma, che può abbondare anche in un aspirante dittatore. Oggi sembra che molti abbiano improvvisamente dimenticato chi è Matteo Renzi. Perché i rapporti di forza l’hanno costretto a scegliere un nome decente per il Quirinale, e soprattutto perché sembra stravincere su tutti i fronti.
Ma anche se molti evidentemente ardono dal desiderio di scordarsi un pur recentissimo passato e di tornare a un pacifico tran tran senza più minacce né conflitti, Renzi rimane Renzi e ignorarlo sarebbe, oggi più che mai, esiziale. Eletto il presidente, si torna alla dura realtà di ogni giorno, con un governo che sistematicamente mortifica il dissenso per far passare con ogni mezzo leggi reazionarie. A nessuno, passata la festa, dovrebbe essere consentito di dimenticarsene.