Una vittoria dal sapore di storia, impensabile 4 mesi fa quando gran parte della popolazione della città fu costretta alla fuga dall’avanzata brutale del califfato: in pochi giorni gli islamisti hanno occupato 300 villaggi kurdi e trasformato 150mila persone in profughi, ospiti indesiderati in Turchia.
Kobane ha combattuto pressoché da sola, guadagnandosi l’appellativo di «Stalingrado kurda», contro la macchina da guerra islamista, forte delle armi made in Usa razziate dalle basi militari irachene. Ha combattuto da sola perché i raid della coalizione, seppur continui (l’80% dei bombardamenti Usa in Siria hanno avuto come target le aree intorno Kobane), non erano così precisi da riuscire a frenare l’offensiva islamista. Ha combattuto da sola perché i 150 peshmerga inviati da Irbil erano una goccia nel mare del proselitismo del califfato che a Kobane riusciva ad inviare ogni giorno forze fresche.
Ha combattuto da sola perché la vicina Turchia ha impedito – o cercato di impedire – il passaggio di aiuti e armi a chi resisteva, ma anche l’arrivo di altri rifugiati, sparandogli addosso mentre tentavano di attraversare la frontiera. Ha indirettamente sostenuto l’Isis, come dimostrato da video e foto pubblicate dagli attivisti al confine che per mesi hanno monitorato esercito turco e miliziani.
A fianco di Kobane si è sollevata la solidarietà di tanti movimenti internazionali e internazionalisti e del Pkk, che da subito ha mandato combattenti e armi a difesa della città, simbolo – insieme al resto di Rojava – del modello di democrazia diretta e partecipazione popolare che le comunità kurde in Siria hanno messo in piedi dopo lo scoppio della guerra civile. A Kobane non si è combattuto solo per la liberazione della città: si è difeso quel progetto politico contro l’oppressione socioeconomica imposta dallo Stato-nazione liberista (di cui la Turchia è modello) e contro il fascismo e l’autoritarismo del califfo.
Ad una settimana dalla presa della strategica collina di Mistenur, ieri le Ypg e le Ypj hanno assunto il controllo della strada proveniente da Aleppo che l’Isis ha utilizzato per oltre 130 giorni per rifornire i suoi miliziani di cibo e armi. Chiusa quella strada, Kobane si è liberata: «L’Isis è stato sconfitto. Le loro difese sono collassate e i suoi miliziani sono fuggiti», ha commentato il funzionario kurdo Idriss Nassan, aggiungendo che negli ultimi giorni i raid aerei Usa si sono intensificati permettendo alla resistenza kurda di lanciare la controffensiva decisiva.
«Non avevamo dubbi, avremmo ripreso Mistenur. Così abbiamo rispettato i desideri di tutti i compagni caduti nella lotta – ha commentato il comandante Kendal – Adesso abbiamo il controllo di tutta la città e dei villaggi a est e a sud».
Ora è il momento di pensare alla ricostruzione e all’apertura di un corridoio umanitario: la città è ancora circondata dagli islamisti che occupano molti villaggi, i quartieri sono devastati dai missili dell’Isis e dai combattimenti strada per strada, scuole e ospedali distrutti insieme alle infrastrutture base, ordigni giacciono inesplosi tra le macerie e reti idriche e elettriche non funzionanti.
E mentre Kobane festeggiava, dall’altro lato del confine orientale si celebrava un’altra liberazione: l’esercito iracheno ha annunciato ieri la fine dell’occupazione islamista della provincia di Diyala, est del paese, uno dei due confini immaginati dal califfo al-Baghdadi per il suo califfato. Avrebbe dovuto correre da Diyala a Aleppo (o magari Beirut), ma ieri il generale iracheno al-Zaidi gli ha rotto le uova nel paniere: «Annunciamo la liberazione di Diyala dall’Isis. Le forze irachene hanno il controllo totale di tutte e città e i distretti della provincia».
Con Kobane e Diyala libere cresce la speranza di sconfiggere l’Isis e il modello di separazione di cui è indirettamente portatore, specchio delle agende politiche di tanti attori regionali. Ma non mancano le fonti di preoccupazione: secondo il quotidiano Asharq alawsat, oltre il 4% del Libano sarebbe oggi sotto il controllo dei miliziani dell’Isis e del suo alleato a metà, il Fronte al Nusra. In un simile contesto il dialogo forzato tra Damasco e opposizioni siriane, cominciato ieri a Mosca, sembra già destinato a fallire: buona parte della Coalizione Nazionale ha rifiutato di prendervi parte, mentre il presidente Assad in un’intervista ha definito le opposizioni «i burattini di Qatar, Arabia Saudita e Occidente».