Tra furore e utopia, una amara antropologia dello sfruttamento

by redazione | 18 Gennaio 2015 10:16

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«Morirò a Parigi con la piog­gia / in un giorno del quale ho già il ricordo». Così scri­veva il peru­viano César Val­lejo in «Pie­tra nera su una pie­tra bianca», nella rac­colta Poemi umani. Roberto Bolaño, in uno dei suoi romanzi più cupi, Monieur Pain, ha rac­con­tato a modo suo la morte del poeta, che avvenne a Parigi, di malat­tia e di stenti, attri­buen­dola a un miste­rioso sin­ghiozzo e a una cospi­ra­zione fasci­sta. Nel 2008 Gorée ha pub­bli­cato l’opera poe­tica di Val­lejo in due pre­ziosi volumi curati da Roberto Paoli, uno dei suoi più impor­tanti stu­diosi. Con l’uscita lo scorso anno del rac­conto «Favola sel­vag­gia» nella col­lana gli Eccen­trici di Arcoi­ris, e ora del romanzo Tung­steno per Sur (tra­du­zione di Fran­ce­sco Verde, pre­fa­zione di Gof­fredo Fofi, pp. 160, euro 15,00), il let­tore ita­liano può final­mente cono­scere anche parte dei suoi scritti in prosa.

Nato in un paese della cor­di­gliera andina, ultimo degli undici figli di una cop­pia for­mata da una sorta di «avvo­cato del popolo» di ori­gini gali­ziane e da una donna di ascen­denze indi­gene, il metic­cio Val­lejo è uno dei più grandi poeti del Nove­cento, e a com­pro­varlo bastano le rac­colte Gli araldi neri e Trilce, insieme a quelle postume: Poemi umani e Spa­gna, allon­tana da me que­sto calice, in difesa della Repub­blica spa­gnola. Dopo diversi ten­ta­tivi di lau­rearsi in let­tere, sem­pre inter­rotti per le dif­fi­coltà eco­no­mi­che e inter­val­lati da varie espe­rienze lavo­ra­tive – impie­gato in miniera, inse­gnante, aiuto con­ta­bile in uno zuc­che­ri­fi­cio – che gli fecero toc­care con mano la realtà dello sfrut­ta­mento, Val­lejo si tra­sferì a Tru­jillo e poi nella capi­tale Lima, dove entrò in con­tatto con l’intellettualità cit­ta­dina e strinse ami­ci­zia con José Car­los Mariá­te­gui, il fon­da­tore del Par­tito socia­li­sta peruviano.

Nel 1918, anno in cui morì la madre, figura cen­trale nella sua vita e nella sua poe­tica, pub­blicò Gli araldi neri, una rac­colta ancora carat­te­riz­zata dagli sti­lemi dell’estetica moder­ni­sta ma nella quale affio­rano già ele­menti di rot­tura di quella tra­di­zione ormai esau­sta. Due anni dopo, ingiu­sta­mente accu­sato di aver pro­cu­rato un incen­dio e un sac­cheg­gio, viene incar­ce­rato per quat­tro mesi; darà conto di que­sta tri­ste espe­rienza nel volume di prose avan­guar­di­sti­che Esca­las mielografadas.

Ma è nel 1922, con l’uscita di Trilce, che la sua ispi­ra­zione si rivela in tutta la sua potenza e ori­gi­na­lità. In una inter­vi­sta con­cessa a un quo­ti­diano madri­leno nel 1931, alla domanda sul signi­fi­cato della parola che dava il titolo alla sua rac­colta poe­tica, rispose: «Ah, be’, Trilce non signi­fica niente. Non tro­vavo nes­suna parola degna di diven­tare un titolo, e allora l’ho inven­tata: Trilce. Non è una bella parola?».

Ine­vi­ta­bile il con­fronto con «dada» e il dadai­smo, anche se il rap­porto di Val­lejo con le avan­guar­die lati­noa­me­ri­cane ed euro­pee non fu mai lineare né scon­tato. Il libro venne accolto con molte riserve e con un certo stu­pore; del resto, le poe­sie sono piut­to­sto erme­ti­che, le scelte les­si­cali ardite e la sin­tassi vio­len­tata. Come ha scritto Roberto Paoli: «Fuori dalle coor­di­nate degli affetti, il mondo si fa pre­sente a Val­lejo come caos e assurdo. È in que­sta zona di rifiuto o, peg­gio ancora, di enig­ma­ti­cità invio­la­bile che il poeta ha adot­tato più lar­ga­mente i modi dell’avanguardia, ridu­cen­done tut­ta­via il valore ludico e, anzi, accen­tuan­done la carica rivo­lu­zio­na­ria, giac­ché, in que­sta par­ti­co­lare ado­zione, la tec­nica avan­guar­di­stica viene assunta come cor­ri­spet­tivo for­male di una visione scar­di­nata e bru­tale, come il solo vei­colo atto a rap­pre­sen­tare un mondo fran­tu­mato e capo­volto, insomma come lin­guag­gio della fol­lia del reale».

Infatti, Val­lejo si distan­zia dalle avan­guar­die euro­peee su punti essen­ziali, che lo avvi­ci­nano piut­to­sto a un’altra figura di intel­let­tuale attiva a Parigi in que­gli anni: Anto­nin Artaud, e non solo per la dichia­rata volontà di scri­vere «per gli anal­fa­beti», per l’espressività e la cru­dezza del lin­guag­gio, ma per il peso che assu­mono nelle opere di entrambi la sof­fe­renza esi­sten­ziale e l’insurrezione del corpo e delle sue pul­sioni, il rifiuto della sen­sua­lità: «Godere in ogni occa­sione e attra­verso tutti i pori, ecco il cen­tro delle loro osses­sioni», scrive Artaud nel 1927 nel suo libello À la grande nuit ou le bluff sur­réa­li­ste –, dei gio­chi lin­gui­stici fini a sé stessi e del vano ribel­li­smo paro­laio.
«La ribel­lione non è pos­si­bile senza l’innocenza. Si ribel­lano sol­tanto i bam­bini e gli angeli», scrive Val­lejo, che fa i conti con Bre­ton e amici in una cro­naca gior­na­li­stica del 1930 inti­to­lata «Autop­sia del sur­rea­li­smo», dove svi­luppa una cri­tica delle scuole let­te­ra­rie dei primi decenni del Nove­cento (espres­sio­ni­smo, dadai­smo, sur­rea­li­smo, futu­ri­smo…). «Mai il pen­siero sociale si è fra­zio­nato in tante e tanto effi­mere for­mule. Mai ha spe­ri­men­tato un gusto altret­tanto fre­ne­tico e una simile neces­sità di ste­reo­ti­parsi in ricette e cli­ché, come se avesse paura della pro­pria libertà o come se non potesse pro­dursi nella pro­pria unità orga­nica». E stig­ma­tizza il «vizio del cena­colo», così come Artaud aveva dichia­rato: «Il sur­rea­li­smo è morto per il set­ta­ri­smo imbe­cille dei suoi adepti».

Diver­sa­mente da Artaud, Val­lejo negli anni trenta aderì al mar­xi­smo, un mar­xi­smo sui gene­ris, vis­suto soprat­tutto come ane­lito all’uguaglianza, alla giu­sti­zia sociale e alla soli­da­rietà, che non avrebbe reciso le sue radici cri­stiane e uma­ni­sti­che, né lo avrebbe spinto ad abdi­care alla libertà artistica.

Di que­sta ade­sione al mar­xi­smo è frutto, appunto, il romanzo indigenista-proletario Tung­steno, pub­bli­cato a Madrid nel 1931. Se in Favola sel­vag­gia, che rien­tra in qual­che misura nella let­te­ra­tura fan­ta­stica e rac­conta un dramma della gelo­sia e della fol­lia cen­trato sul tema del «dop­pio demo­niaco», Val­lejo offriva uno squar­cio delle ance­strali super­sti­zioni del mondo rurale andino, in Tung­steno ela­bora una dram­ma­tica visione della lotta di classe che oppone i padroni nor­da­me­ri­cani delle miniere e i loro sca­gnozzi locali ai peo­nes e agli indi­geni soras, «arruo­lati» con la vio­lenza e costretti al lavoro for­zato, e trac­cia una dif­fe­renza antro­po­lo­gica fra la visione del mondo di que­sti ultimi e quella dei loro aguz­zini \[.…\] Come scrive Gof­fredo Fofi nella pre­fa­zione: «In una stessa ondata di furore e uto­pia, somi­glia a molti altri romanzi di que­gli anni che rac­con­ta­rono dispe­ra­zione e rivolta degli oppressi in più parti del mondo, e ha qual­cosa in comune con i grandi romanzi della fede socia­li­sta o comunista».

Ma il carat­tere dida­sca­lico e di pro­pa­ganda, che ne fanno in qual­che misura un’opera datata, sono ampia­mente riscat­tati, oltre che dalla potenza delle scene – ter­ri­bile quella dello stu­pro di gruppo di una gio­vane india ridotta in schia­vitù – da una par­te­ci­pa­zione non este­riore di Val­lejo al dramma degli indios. Come scrive ancora Fofi: «È la par­te­ci­pa­zione diretta alla con­di­zione e alla cul­tura india a matu­rare la voca­zione di Val­lejo, e a seguirlo nell’esilio euro­peo, pari­gino, come una piaga e una corona». E l’ostracismo subìto per le sue posi­zioni poli­ti­che, che lo costrin­gerà a una vita grama, vis­suta in digni­tosa povertà, non l’ha mai fatto venire meno a uno dei suoi prin­cìpi: «Se c’è un’attività di cui non si deve fare una pro­fes­sione, que­sta è l’arte».

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