Europa e islam intesa Feconda?

by redazione | 6 Gennaio 2015 18:13

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Due romanzi profetici hanno segnato il secolo scorso — 1984 e Il mondo nuovo. Erano profetici non perché predicessero il futuro, che li ha smentiti, ma perché enunciavano una verità sul presente. Le anticipazioni di Michel Houellebecq appartengono alla stessa famiglia. Con Aldous Huxley egli condivide una curiosità affascinata per i fenomeni religiosi; con George Orwell l’orrore della correttezza politica e un senso acuto — di cui raramente gli si dà credito — della common decency. Per di più, e Dio sa quanto mi piacciono Huxley e Orwell, è un romanziere più possente di loro.
  L’avvenire non sarà forse quello descritto in Particelle elementari , La possibilità di un’isola o, oggi, in Sottomissione , ma se attualmente c’è qualcuno, nella letteratura mondiale e non solo francese, che pensa questa sorta di enorme mutazione che tutti noi sentiamo essere in corso senza avere i mezzi di analizzarla, e che non concerne soltanto la civiltà occidentale ma lo status dell’umanità, questi è lui.
Sottomissione , dunque. E’, ancora una volta, la cronaca di una mutazione. Il cronista è un universitario, specialista di Huysmans, e uno degli abituali portavoce dell’autore: si scalda, da solo, piatti al microonde; ossessionato dalla nostalgia e dall’impossibilità della coppia, sfiora l’amore vero con una ragazza intelligente, simpatica, bella e che oltretutto lo ama ma che la sua onestà patologica gli impedisce di amare; non aspira che ad andare a dormire verso le quattro del pomeriggio con una bottiglia di alcol forte, una stecca di sigarette, una pila di buoni libri che non molti ormai leggono, e la prospettiva a questo ritmo di morire rapidamente, infelice e solo. Inutile dire che per tutta la vita questo misantropo se ne è infischiato abbastanza della politica, ma ecco che le cose cambiano e che la politica comincia a interessarlo.
Il libro comincia con l’elezione presidenziale del 2020. Nella precedente, quella del 2017, François Hollande è stato rieletto per sbarrare la strada a Marine Le Pen, ma durante il secondo mandato, catastrofico, del presidente socialista, si manifesta una nuova e potente forza politica: la Fratellanza musulmana. Il suo leader, Mohammed Ben Abbes, è un islamista moderato, dal fisico rassicurante del «vecchio droghiere tunisino di quartiere», che evita l’antisemitismo imbarazzante, sostiene la causa palestinese ma con circospezione, recluta i suoi seguaci ben al di là delle popolazioni musulmane. La situazione è quindi totalmente nuova: i due grandi partiti, di centro-destra e di centro-sinistra, attorno ai quali si strutturava la vita politica del Paese dalla fine della Seconda guerra mondiale, sono del tutto screditati, emarginati. Le forze presenti sono ormai il Front National (Fn) e la Fratellanza musulmana. Entrambi sono partiti democratici, che hanno scelto il ricorso alle urne, e ciascuno di essi ha un bel da fare con i propri estremisti rispettivi: movimenti identitari da un lato, jihadisti dall’altro. Gli editorialisti virtuosi si sgolano a denunciare le «Cassandre» che predicono l’inevitabile guerra civile fra immigrati musulmani e popolazioni autoctone dell’Europa occidentale; Houellebecq ne approfitta per raccontare il mito di Cassandra e meravigliarsi di come viene di solito usato allorché le predizioni pessimistiche di questa profetessa hanno come particolarità di essersi sempre realizzate. Al primo turno, il Fn si ritrova come previsto in testa, ma la Fratellanza è in seconda posizione. Inizia il gioco delle trattative e delle coalizioni: ultima possibilità di avere un piccolo ruolo per i partiti tradizionali guidati da Jean-François Copé e Manuel Valls. Alla fin fine, chi ha la meglio è ancora una volta un’alleanza contro il Fn: un Fronte repubblicano allargato in cui Ump e Ps aderiscono alla candidatura di Ben Abbes. Questi promette che, se verrà eletto, nominerà François Bayrou primo ministro e che, nel formare il governo, esigerà per gli islamisti solo il ministero dell’Educazione. Il fatto è che egli si preoccupa poco dell’economia e anche della geopolitica: per lui, la vera posta in gioco sono i bambini e la loro educazione. Che siano musulmane, ebree o cristiane — spiega — le famiglie desiderano per i loro figli una educazione che non si limiti alla trasmissione di conoscenze, ma integri una formazione spirituale, che corrisponda alla loro tradizione. A questo discorso mellifluo Marine Le Pen replica con toni accesi, e sul terreno dell’intransigenza laica e repubblicana. Tre milioni di elettori nazionalisti sfilano in Place de la Concorde rivendicando, contro l’oscurantismo religioso, l’eredità dei Lumi. Malgrado ciò, Ben Abbes viene eletto. E tutto va bene.
Addirittura benissimo. All’inizio, si è leggermente turbati nel non vedere più, da nessuna parte, donne che indossino la gonna né, ben presto, donne che frequentino i luoghi pubblici, ma la Francia ritrova un ottimismo che aveva perso dalle «Trente glorieuses» (i trenta gloriosi anni di crescita economica dalla fine della Seconda guerra allo choc petrolifero, ndr ). Visto che le donne escono dal mercato del lavoro, la curva della disoccupazione si inverte. La previdenza sociale è sostituita dalla solidarietà familiare. Lo Stato smette di aiutare l’industria, comunque disastrata, a vantaggio dell’artigianato e della piccola impresa individuale. La sharia regola una società ridiventata patriarcale, meno libera ma più sicura e più felice. L’asse della costruzione europea si sposta verso il Sud. Mohammed Ben Abbes vuole diventare, e diventerà, il primo presidente eletto dell’Europa: un’Europa allargata ai Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, e che presto avrà di nuovo un peso nel mondo. Egli soltanto ha un progetto di civiltà, che non è difensivo e nostalgico come quello degli identitari, ma dinamico e visionario. La laicità, il secolarismo, il materialismo ateo hanno fatto il loro tempo: quello dell’islam è giunto, ed è la seconda chance dell’Europa, la prospettiva di una nuova età dell’oro per il vecchio continente. Happy end.
Mi rendo conto che questo riassunto per sommi capi può dare l’impressione di una satira canzonatoria, di una fantapolitica a breve termine e che non guarda molto lontano. Ma parliamo di un libro di Michel Houellebecq, cioè di un libro di straordinaria consistenza romanzesca in cui, insieme all’anticipazione, troviamo pagine magnifiche su Huysmans, sugli scrittori cattolici della fine del XIX secolo, sulla letteratura in generale. Specialità tradizionali della casa, come gli incontri di sesso con escort girls chiamate Nadiabeurette o Babeth la salope. Osservazioni sociologiche di un’acutezza sbalorditiva. Ma lì dove il libro vola alto e raggiunge quella strana posizione sovrastante, quasi extraterrestre, che rende Houellebecq unico, è verso la fine, quando il narratore si converte. Lo fa per ragioni opportunistiche: perché così potrà fare ritorno alla Sorbona, facoltà ormai coranica, con un bell’appartamento di funzione e tre mogli, due giovani per il sesso, una vecchia per la cucina (sono anche loro contente? La questione non viene affrontata).
Tuttavia, non è un cinico, e il punto culminante del libro è la sua conversazione con un seducente personaggio che, anch’esso universitario, autore di una tesi su «René Guénon, lettore di Nietzsche», passato attraverso gli ambienti identitari poi convertitosi all’islam, è diventato un potente apparatchik del nuovo regime. E’ una conversazione che mi ha fatto pensare a quella di Winston Smith, l’eroe di 1984 , con l’ufficiale incaricato di torturarlo e non solo di sottometterlo a Big Brother, ma di farglielo amare. Mi ha fatto pensare anche alla Leggenda del Grande inquisitore nei Fratelli Karamazov. Essa si svolge nella casa del Tentatore, che è quella in cui ha vissuto Jean Paulhan, in rue des Arènes.
Né il narratore né Houellebecq hanno la minima stima per l’eminenza grigia della Nrf (Nouvelle revue française), ma stimano Dominique Aury, che per amore di Paulhan ha scritto Histoire d’O . Un libro kitsch quanto si vuole, ma sublime, trascinato dall’intuizione che il sommo della felicità umana risiede nella sottomissione: al padrone nell’erotismo, a Dio nell’islam. E’ quello che significa, letteralmente, la parola islam: sottomissione. La si potrebbe anche tradurre, a ragione: accordo, assenso, consenso; e Houellebecq vi acconsente: diversamente dal buddismo, che considera il mondo come un tessuto di sofferenza e di illusione, o anche dal cristianesimo, che lo vede come una valle di lacrime, l’islam lo accetta tale e quale. Reputa perfetta, e dunque non perfettibile, la creazione di Dio. Siamo lontani dalla «religione più stupida» denunciata dall’autore ai tempi di Piattaforma. Al contrario, una religione più semplice, e più vera di qualsiasi altra: a condizione di prenderla in blocco, così com’è, e di non cercarvi l’unica cosa che non vi si può trovare, quella da cui precisamente essa ci emancipa: la libertà.
A questo punto della lettura mi sono chiesto cosa pensasse davvero Houellebecq, e quello che io stesso pensavo, di tutto ciò. Comincio da me, non perché sia più semplice — in realtà non so bene cosa penso su questo argomento scivoloso —, ma perché ho comunque trascorso gli ultimi sette anni a scrivere un grosso volume ( Il regno , che uscirà in Italia a marzo per Adelphi) sugli inizi del cristianesimo, e mi ha colpito che il mondo antico, fra il I e il IV secolo, si fosse sentito gravemente minacciato da una religione orientale intollerante, fanatica, i cui valori erano interamente opposti ai suoi. Le menti migliori temevano qualcosa come una «grande sostituzione». Ebbene, questa «grande sostituzione», questa mescolanza contro natura dello spirito della ragione greco-romano e della strana superstizione giudeo-cristiana, c’è stata davvero. Ciò che ne è risultato è quella cosa non così insignificante chiamata civiltà europea. Molti intelletti, di nuovo, credono che oggi questa civiltà sia minacciata, e io ritengo tale minaccia reale, ma non è impossibile che sia anche feconda, che l’islam più o meno a lungo termine non rappresenti il disastro ma l’avvenire dell’Europa, come il giudeo-cristianesimo fu l’avvenire dell’Antichità. Per quanto mi riguarda, mi piacerebbe pensare che ciò implichi un adattamento dell’islam alla libertà di pensiero europea: è qui che mi allontano da Houellebecq, che deve considerare «l’islam dei Lumi» come una contraddizione in termini, una pia fantasticheria da utile idiota o da umanista (parola che, come egli dice, gli dà «leggermente voglia di vomitare»). La grandezza dell’islam, se ho letto bene, non è di essere compatibile con la libertà ma di sbarazzarcene. E appunto, che liberazione!
«Mi chiedevo se facesse dell’ironia — dice il narratore del suo tentatore —, ma in realtà no, non credo». Forse mi sbaglio, ma nemmeno io credo che Houellebecq sia ironico. Né il suo eroe quando considera la propria conversione come «la possibilità di una seconda vita, senza un gran rapporto con la precedente», e certamente migliore. «Non avrei avuto niente da rimpiangere»: è l’ultima frase del libro, e la trovo altrettanto memorabile dell’ultima frase di 1984 : «Amava il Grande Fratello». Invece il senso è totalmente diverso: Winston Smith si è arreso, ma Orwell continua a resistere per lui. La resistenza non interessa a Houellebecq. Egli ritiene che l’Occidente sia spacciato, talmente spacciato che non c’è più niente da rimpiangere. Che la libertà, l’autonomia, l’individualismo democratico ci abbiano immersi in uno sconforto assoluto; sconforto che nessuno ha descritto meglio di lui. Se rimane una speranza al di fuori della pura estinzione (alla quale si capisce che Houellebecq non sarebbe ostile) essa scaturirà da quelle che secondo noi rappresentano le peggiori minacce per la nostra civiltà e per l’idea che ci facciamo dell’umanità: la clonazione nelle Particelle elementari e La possibilità di un’isola , e l’islamismo. Quello che temevamo di più è ciò che, una volta passati dall’altra parte, ci sembrerà più desiderabile, al punto che ci stupiremo di non averlo desiderato prima. Tale capovolgimento radicale delle prospettive è quello che in termini religiosi si chiama conversione e, in termini storici, cambiamento di paradigma. E’ di questo che parla Houellebecq, non parla mai di altro, è praticamente l’unico a parlarne, per lo meno a parlarne così, come se potesse accedere ai libri di storia del futuro — supponendo che ci siano ancora libri di storia, e un futuro —, ed è per questo che lo leggiamo tutti, sbigottiti.
Emmanuel Carrère
(traduzione di Daniela Maggioni)
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