ROMA Alcuni autorevoli quotidiani internazionali lo ritenevano predestinato a uscire papa dal conclave che eleggerà il successore di Napolitano. E in Germania erano in molti a sperare nel trasloco di Mario Draghi da Francoforte a Roma. Ma ieri l’inquilino dell’Eurotower si è chiamato fuori dalla corsa per il Colle. «Non voglio essere un politico» ha scandito al quotidiano economico tedesco Handelsblatt , che lo ha intervistato sulle imminenti dimissioni del presidente della Repubblica italiano. E poi, con buona pace di quanti, in Germania, sognano di sostituirlo: «Il mio mandato alla Banca centrale europea è in vigore fino al 2019».
Parole inequivocabili, che spediscono in archivio indiscrezioni e speculazioni che hanno accompagnato per settimane il nome dell’ex governatore della Banca d’Italia, sollevando interrogativi sul futuro dell’area euro nel caso in cui la scelta del successore di Napolitano fosse caduta su di lui. Draghi si è tirato fuori dalla rosa dei nomi, liberando una casella prestigiosa del toto-presidente e tranquillizzando i mercati. Piazza Affari ha chiuso le contrattazioni con il segno più, manifestando apprezzamento per la notizia che il banchiere resterà al suo posto per riportare la crescita nell’eurozona.
Draghi esorta i Paesi della zona euro a fare la loro parte, accelerando il varo di riforme strutturali e lavorando per ridurre la pressione fiscale: «Rilevo troppa burocrazia e tasse. In Europa abbiamo uno dei più elevati carichi fiscali al mondo, un pesante svantaggio competitivo».
L’uscita di un tecnico di grosso calibro dalla scena del Quirinale rafforza le quotazioni di una personalità politica, già tratteggiata da Renzi e poi da Napolitano nel discorso di fine mandato. Di primato della politica ha ragionato sul Corriere di ieri Laura Boldrini, spezzando una lancia a favore di una donna: «Se andiamo a dirigere il Cern, possiamo anche salire al Quirinale». Ma non è un’autocandidatura, ha chiarito la presidente della Camera.
Debora Serracchiani spiega che il Pd vuole una scelta largamente condivisa «a partire da Berlusconi». Ma sul nome che possa mettere d’accordo tutti nel Pd c’è grande agitazione, se è vero che i renziani hanno contato 140 potenziali franchi tiratori, un’ottantina dei quali democratici. Eppure Lorenzo Guerini è convinto che non sarà una resa dei conti interna e si dice certo che la figuraccia dei 101 franchi tiratori del 2013 non si ripeterà. Matteo Renzi gioca a carte copertissime e Guerini conferma la strategia ufficiale di questa prima fase: «Costruire un accordo ampio, che coinvolga Forza Italia e non si fermi lì». Un incontro ad hoc tra il premier e Berlusconi ci sarà ma non a breve, visto che Napolitano non si è ancora dimesso. Tra i nomi «dem» che il leader di Forza Italia starebbe vagliando ci sono Anna Finocchiaro, Pierluigi Castagnetti e Sergio Mattarella. Il Pd è intenzionato a coinvolgere il M5S, però Guerini spiega che dipende da loro: «Se vogliono sedersi seriamente al tavolo bene, se invece si impuntano su un nome diventa complicato».
Tra i democratici, le quotazioni di Romano Prodi sarebbero in discesa. Ma i giochi sono apertissimi. Il totale dei grandi elettori ammonta a 1.009, meno i due presidenti delle Camere (che per prassi non votano), si arriva a 1.007 incluso lo stesso Napolitano, che da futuro senatore a vita potrebbe concorrere alla scelta del suo successore. Forza Italia cerca un nome che porti a termine il processo di pacificazione, con la grazia a Berlusconi. «Nessun tecnico può essere garante di una fase di riforma delle istituzioni» è la tesi di Gianfranco Rotondi. E Ignazio Abrignani chiede che il prossimo capo dello Stato ponga «fine alla vicenda incresciosa che ha coinvolto Berlusconi per colpa di una parte della magistratura politicizzata». I centristi di Area popolare (Ncd-Udc) vogliono essere della partita e la capogruppo Dorina Bianchi vede «i presupposti per una scelta condivisa».
Monica Guerzoni